Categoria: Fare Impresa

  • Workers buyout: possibile soluzione alla crisi

    I WBO producendo una serie di benefici sia per i lavoratori che per le istituzioni, potrebbero rivelarsi uno strumento vincente per affrontare la crisi e nel caso di passaggio generazionale.

    Il 3 e il 4 marzo si è tenuto a Roma, presso l’Auditorium Parco della Musica, il 41° Congresso Nazionale di Legacoop. 

    La prima giornata si è aperta con i messaggi istituzionali di buon congresso da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e della Premier Giorgia Meloni.

    A seguire l’intervento del presidente Legacoop Mauro Lusetti che dopo 9 anni ha lasciato il suo incarico, cedendo il posto a Simone Gamberini.

    Presenti all’evento anche Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative e di Alleanza delle cooperative, Giovanni Schiavone, presidente AGCI e co-presidente di Alleanza, don Luigi Ciotti, presidente dell’Associazione Libera. 

    Durante la tavola rotonda “Il PNRR nella sfida della sostenibilità”, si sono confrontati Giovanna Barni, presidente di CulTure Media; Alessandro Hinna, presidente di Consorzio Nazionale Servizi; Pierluigi Stefanini, presidente di Asvis; Irene Tinagli, presidente della commissione Affari economici al Parlamento europeo; Alberto Bagnai, vice presidente della commissione Finanze della Camera.

    All’evento sono intervenuti anche  il ministro per le Politiche Ue e il PNRR, Raffaele Fitto, il ministro delle imprese e del Made in Italy Adolfo Urso e la ministra del Lavoro Elvira Calderone che ha definito la cooperazione come “il punto d’incontro tra esigenze delle imprese e delle persone ed è in grado di rispondere bene alle crisi”. L’innovazione, inclusione, le politiche di genere sono vostre peculiarità che abbraccio in pieno”, ha continuato, aggiungendo che il workers buyout “è uno strumento centrale: bisogna studiare insieme strategie che consentano al wbo di essere uno strumento difensivo in caso di crisi d’impresa e in parallelo nel caso di passaggio generazionale”.

     “Altro strumento che considero molto importante-  ha dichiarato– è la cooperazione sociale che consente alle persone svantaggiate di entrare nel mercato del lavoro: va rivitalizzato per la sua importanza”.

    Ma cosa sono i Workers buyout? 

    Con il termine Workers buyout si intendono tutte quelle cooperative nate per iniziativa dei dipendenti che rilevano l’azienda in crisi riuscendo in questo modo a mantenere  un’attività produttiva e il proprio posto di lavoro. 

    Negli ultimi anni segnati dalla pandemia e dalla crisi in Italia molte realtà industriali non riescono a sopportare i costi in continuo aumento , ad avere un buon cambio generazionale e sono così destinate alla chiusura.

    Quali sono i benefici dei workers buyout? 

    Il workers buyout produce una serie di benefici sia per i lavoratori, che per le istituzioni e il territorio. 

    Attraverso il workers buyout,  i lavoratori creano un’alternativa occupazionale

    Salvaguardano il know how acquisito nel tempo, che potrebbero disperdersi e rendersi irrecuperabili, poiché la scomparsa di un’azienda implica non solo la perdita  di posti di lavoro, ma anche la dispersione di conoscenze e competenze acquisite negli anni. 

     Permettono di attivare sviluppi aziendali sostenibili e promuovere un piano di sviluppo adeguato a quelle che sono le esigenze dell’impresa. 

    Molte volte, poi, vanno a tutelare una produzione tipica, che altrimenti andrebbe perduta, oppure assicurano in un’area geografica la permanenza di un’impresa che tradizionalmente appartiene a un certo territorio.

    In Italia le società cooperative esito di WBO attualmente attive impiegano oltre 4 mila dipendenti e generano un fatturato totale di circa 490 milioni di euro. 

    Trasformare un’impresa in una cooperativa attraverso il WBO è un percorso importante, da non sottovalutare. Il modello cooperativo, coniugando innovazione e lavoro con etica, solidarietà e sostenibilità si è rivelato molto efficace nel salvaguardare e costruire molti posti di lavoro, mantenendo stabile il tasso occupazionale e di essere una valida alternativa al modello capitalistico.


  • fondosviluppo bando cooperative

    I punti di forza delle imprese cooperative

    Per i giovani fare impresa è sempre più difficile ma il modello cooperativo, con i suoi punti di forza, è una valida alternativa al modello tradizionale.

    Cos’è un’impresa cooperativa e perché i giovani dovrebbero interessarsi a questo modello?   

    La cooperativa è un’impresa basata sulla cooperazione delle persone, le pone al centro retribuendo il lavoro e l’impegno sociale.

    Di questi tempi, in una situazione caratterizzata da una forte crisi, fare impresa è sempre più difficile e molti giovani con un grande spirito imprenditoriale si ritrovano con scarse possibilità di investire e realizzare i propri sogni.

    In Italia il modello di impresa cooperativa offre una serie di punti di forza che lo rendono un’alternativa valida alle imprese tradizionali.

    In questo pezzo proviamo ad analizzare i fattori che contribuiscono al successo delle cooperative italiane, rendendole un punto di riferimento da tenere in considerazione per chi vuole avviare una nuova attività d’impresa.

     

    Cooperare per raggiungere uno scopo comune

    Nelle cooperative vige il principio della partecipazione attiva dei soci che assicura che le scelte siano fatte in modo democratico, rappresentando bisogni ed esigenze di chi fa parte della compagine sociale. Essendo autonome non controllate da interessi esterni, le coop possono prendere decisioni in base ai loro obiettivi e alle esigenze dei soci, senza dover seguire le priorità di azionisti esterni. Nascono con l’obiettivo di soddisfare i bisogni dei soci e della comunità in cui operano e perseguono degli obiettivi sociali comuni a tutti i soci. Ciò significa che non sono incentrate solo sul profitto, ma sono impegnate a creare un valore aggiunto per il territorio in cui operano. 

     

    Solidarietà: la strada per il successo 

    Altro punto cardine è quello della solidarietà tra i soci, che si uniscono per raggiungere obiettivi comuni aiutandosi a vicenda e lavorando insieme per creare un’impresa di successo. Vige il principio del Dividendi equi, secondo cui i soci ricevono una parte degli utili generati dall’impresa, ma in modo equo e proporzionale al loro contributo. 

    Rispetto a un’impresa tradizionale le cooperative hanno maggiore accesso alle risorse, per tale ragione i soci possono avere maggiori opportunità di crescita e sviluppo. Tendono ad avere una maggiore stabilità a lungo termine rispetto alle imprese tradizionali. Questo perché i soci sono motivati a mantenere l’impresa nel lungo periodo e a proteggere i loro investimenti.

     

    Formazione e sviluppo: opportunità per migliorare le prospettive di lavoro

    Le cooperative spesso investono nella formazione e nello sviluppo dei propri soci, fornendo loro opportunità di apprendimento e di crescita professionale. Ciò significa che i soci delle cooperative possono acquisire nuove competenze e migliorare le proprie prospettive di lavoro. C’è un costante impegno nella responsabilità sociale d’impresa, ovvero nel creare un impatto positivo sulla società in cui operano. Per questo motivo le cooperative spesso si impegnano in progetti e iniziative che contribuiscono al benessere della comunità. 

     

    Sostenibilità: Un valore per le cooperative

    Viene data molto importanza a temi attuali come quello della sostenibilità ambientale e sociale, per tale ragione cercano di ridurre l’impatto ambientale delle loro attività promuovendo pratiche commerciali etiche e sostenibili. Grazie alla loro flessibilità nella loro struttura organizzativa e nel modo in cui gestiscono l’impresa si adattano facilmente ai cambiamenti nel mercato e alle esigenze dei soci.


  • fondosviluppo bando cooperative

    Un fondo per le cooperative che investono nell’innovazione digitale e green

    Fondosviluppo investe1,5 milioni di euro per le cooperative che realizzano progetti all’insegna dell’innovazione digitale e della transizione ecologica.

    Fondosviluppo Confcooperative ha messo a disposizione un plafond da 1,5 milioni di euro per piccole cooperative che portano avanti progetti all’insegna dell‘innovazione digitale e della transizione ecologica.  Un’iniziativa che nelle idee dell’organizzazione di rappresentanza delle cooperative vuole dare un po’ di respiro a tante realtà che, nonostante la crisi innescata dalla pandemia, hanno deciso comunque di guardare al futuro con speranza e visione investendo nelle tecnologie digitali, nella rigenerazione degli spazi e nella riconversione green.

    Come funziona il finanziamento di Fondosviluppo

    Le risorse messe a disposizione da Fondosviluppo copriranno il 100% delle spese per investimenti in innovazione. L’importo finanziabile va da un minimo di 25mila euro ad un massimo di 250mila euro. Si tratta, dunque, di progetti di piccola-media dimensione che serviranno ad aiutare soprattutto quelle realtà con tanta voglia di crescere e desiderose di puntare sui settori (Digitalizzazione e Transizione ecologica) che saranno al centro del PNRR.

    Il contributo economico per le cooperative sarà articolato così:
    – 20% contributo a fondo perduto
    – 80% prestito presso gli istituti bancari partner dell’iniziativa ovvero Bcc e Banca Etica.

    Gli interessi dei primi tre anni del mutuo saranno sostenuti interamente da Fondosviluppo che riconosce un’ulteriore premialità, pari al 10% delle spese sostenute, per servizi di digitalizzazione, di assistenza e garanzie erogati da società del sistema Confcooperative.

    Innovazione e sostenibilità a matrice cooperativa

    Il progetto di Fondo Sviluppo Confcooperative è stato lanciato nel 2020 e ha visto la partecipazione di oltre novanta imprese cooperative. Di queste circa sessanta hanno ricevuto le risorse stanziate dalla call per un totale di 7.6 milioni di euro.

    Tra i progetti approvati e finanziati diversi riguardano quelle cooperative attive nel campo dei servizi educativi per l’infanzia e dell’assistenza ai soggetti svantaggiati che hanno scelto di sviluppare la digitalizzazione delle prestazioni erogate (implementando, ad esempio, la DAD).  Si tratta, dunque, di un primo importante passo verso la ripartenza delle coop più piccole e la costruzione della società che verrà. 

    «Abbiamo voluto lanciare – ha sottolineato Maurizio Gardini, presidente Confcooperative – un messaggio per alimentare una percezione di speranza e di fiducia. Di questo hanno bisogno il Paese e le imprese. Nella visione delle cooperative ci sono lo sviluppo sostenibile e l’innovazione. Se da un lato abbiamo bisogno di infrastrutture tecnologiche, è vero che dobbiamo irrobustire e costruire nuove infrastrutture sociali. Le cooperative, radicate sul territorio, riescono a realizzare questo grazie alla loro capacità di riconnettere il Paese e ricomporre le tante fratture sociali ed economiche aggravate dal Covid e dalla lockdown economy».


  • credito-d'imposta-mezzogiorno

    Per comprendere come sta il settore dell’industria e dei servizi, è necessario andare in profondità ed analizzare tutti i dati a nostra disposizione. 

    Infodata ci offre un quadro abbastanza completo della situazione, con delle info-grafiche puntuali relativi ai dati dell’Istat. Nel 2014, le imprese dell’industria e dei servizi hanno prodotto un valore aggiunto di 688 miliardi, in aumento dell’1,5% rispetto al 2013.
    Migliorano anche la produttività nominale del lavoro (+3%) e gli investimenti (+7,3%) dopo tre anni consecutivi di variazioni negative. Continua, invece, l’emorragia in termini di posti di lavoro, dal momento che il numero di addetti è diminuito dell’1,3% nel confronto con l’anno precedente.

    Grazie al lavoro di Infodata, possiamo però rilevare ulteriori spunti analitici interessanti. L’aspetto più importante riguarda le differenze tra le credito-d'imposta-mezzogiornoimprese che esportano e quelle che invece realizzano la maggior parte del proprio fatturato sul mercato interno.
    Le aziende che esportano, infatti, sembrano avere un rendimento decisamente superiore: la produttività nominale del lavoro è di 68mila euro contro 30mila e l’intensità degli investimenti ammonta a 9mila euro per addetto contro 3mila.
    C’è da dire, però, che sono poche le realtà che riescono a perseguire questi obiettivi. Ci riescono soprattutto le imprese di grandi dimensioni, ovvero quelle che possiedono le risorse e le competenze per effettuare investimenti all’estero e che li portano a realizzare il 43% del proprio fatturato fuori dall’Italia contro il 9,3% delle micro-imprese.

    La soluzione per migliorare la profittabilità delle imprese italiane potrebbe essere, come più volte sottolineato in questa sede, quella dell’aggregazione e della cooperazione. Lo dimostrano i dati sui gruppi d’impresa. Nel 2014 i gruppi d’impresa italiani sono più di 95 mila e generano un valore aggiunto di 376 miliardi di euro, corrispondente al 55% del totale della industria e dei servizi, e hanno un forte impatto sull’occupazione italiana.Ma cosa ancora più rilevante, i gruppi di impresa hanno un livello di produttività addirittura vicino a quello delle grandi imprese.
    La costruzione di reti d’impresa e organizzazioni di produttori può essere, dunque, la via da seguire per mantenere la dimensione locale dell’attività imprenditoriale ed avere al contempo gli strumenti economici per abbracciare la sfida dell’internazionalizzazione.


  • popolazione-europa

    L’ultima Legge di Stabilità ha inserito delle agevolazioni per le imprese che implementano piani di welfare aziendale. Le aziende che decidono di integrare il salario dei propri lavoratori attraverso benefit come le visite mediche, i viaggi ricreativi o il pagamento delle rette scolastiche, possono usufruire di un fisco favorevole.

    La prossima finanziaria continuerà su questa scia, rafforzando le agevolazioni sul welfare aziendale. I risultati della sperimentazione inaugurata un anno fa sono popolazione-europastati positivi. La ricerca “Il futuro del welfare aziendale dopo la Legge di Stabilità 2016“, realizzata dalla società Welfare Company, ha indagato sugli effetti delle misure contenute nelle scorsa finanziaria. Sono stati intervistati 335 direttori e manager del settore HR di imprese provenienti da tutta Italia.
    Di questi il 71% dichiara di avere adottato piani di welfare aziendale. Si tratta soprattutto di imprese di grandi dimensioni, con più di 500 dipendenti.
    Lo studio evidenzia infatti che i nuovi benefit assistenziali di natura aziendale sono diffusi soprattutto nelle grandi aziende del Nord. Nelle PMI e nelle realtà meridionali sono pochi gli imprenditori che adottano piani di welfare aziendale, soprattutto per i costi eccessivi in termini economici ed organizzativi.
    Gli incentivi presenti nella Legge di Stabilità, dunque, non hanno contribuito a ridurre il gap economico tra le piccole e le grandi aziende, almeno in termini di servizi forniti ai propri dipendenti.
    C’è comunque la volontà di cambiare strategia nei prossimi anni piani, soprattutto se rimarrà questo quadro fiscale. Il 33% dei manager intervistati ha dichiarato che nei prossimi mesi avvierà forme di sperimentazione di welfare aziendale, mentre il 40% implementerà i servizi offerti.

    Nonostante le differenze geografiche e quelle relative alla dimensione aziendale, sembra sia cambiata la prospettiva e che le aziende ritengano il welfare aziendale fondamentale per migliorare il clima interno e la soddisfazione dei lavoratori. Questi ultimi, infatti, spesso preferiscono ricevere un biglietto per una partita di calcio o per un concerto piuttosto che un premio di produttività in denaro.
    Le prestazioni integrative sono diventate un vero e proprio scambio economico tra lavoratore e datore di lavoro.
    I benefit più diffusi continuano ad essere la mensa aziendale ed i buoni pasto, seguiti da quelli relativi alla flessibilità oraria e il part-time (50% delle aziende intervistate)assistenza sanitaria (presente nel 42,5% delle aziende), convenzioni e agevolazioni al consumo (35,2%), permessi di paternità (25%), benefit per lo studio e l’eduzione dei figli (23,3%) e smart working (23%).
    Quanto, invece, alle modalità di erogazione, un’impresa su due effettua un accordo con un singolo fornitore mentre solo il 7% fornisce questi servizi internamente.

     


  • giovani-imprese

    I giovani hanno ancora il desiderio e la possibilità di aprire un’attività d’impresa? In base agli ultimi dati sembrerebbe di si: secondo Unioncamere, nei primi mesi del 2016, gli under 35 hanno creato quasi 88mila imprese (il 31% del totale delle nuove imprese nate in Italia), facendo registrare un saldo positivo tra attivazioni e cessazioni pari a 50mila unità. 

    Come è stato sottolineato durante l’assemblea dei presidenti delle Camere di commercio italiane, nel 2016, ogni giorno, sono nate in media 300 imprese a conduzione prevalente giovani-impresegiovanile. I dati appena elencati sono certamente confortanti, ma siamo lontani dal rendimento di qualche anno fa.
    Nel 2011, per rendere l’idea, gli under 35 avevano costituito 106mila aziende contro le 88mila attuali, un calo della natalità imprenditoriale che riguarda non solo le imprese under 35, ma tutto il sistema italiano.
    Si conferma, inoltre, il miglior rendimento delle imprese giovanili rispetto alle altre imprese italiane per quanto riguarda il saldo tra creazione di nuove aziende e cessazioni (+50mila contro +40mila).

    Nel complesso sono circa 600mila le imprese giovanili italiane. Al momento prevalgono ancora le attività tradizionali: il 29% delle imprese composte da under 35 è attivo nel campo del commercio e il 14% opera nelle costruzioni.
    I nuovi imprenditori giovanili, però, stanno esplorando nuovi settori. Nei primi nove mesi del 2016, infatti, è soprattutto il campo delle telecomunicazioni ad attivare i giovani: più della metà delle imprese costituite in questo comparto hanno una componente prevalente giovanile. C’è un’elevata percentuale di nuove aziende giovanili anche nel campo dei servizi finanziari e dell’attività di produzione cinematografica e video.
    È interessante, infine, rilevare che l’incidenza delle imprese giovanili sul totale delle nuove imprese costituite è più alta al Sud. In Basilicata e in Calabria, ad esempio,arriviamo addirittura a percentuali del 39,1% e del 38,5%.



  • Secondo i dati forniti da Unioncamere, nei primi nove mesi del 2016 il numero di imprese iscritte alla Camera di Commercio è cresciuto di 41.597 unità, 2.227 in più rispetto allo stesso periodo del 2015 (+0,7%).

    L’Italia è tornata così ai ritmi di crescita del 2007, facendo registrare la variazione positiva più ampia dal 2012. Sono tre i settori trainanti del sistema imprenditoriale italiano: turismo (+10.584 imprese), commercio (+6.703) e servizi alle imprese (+6.405). Male, invece, le costruzioni (-2.485 unità da incentivi-impreseinizio anno), le attività manifatturiere (-1.657) e il comparto dell’estrazione di minerali (-34).
    Sembra, dunque, che l’economia italiana, in questo momento storico, sia trascinata dal terziario, mentre il settore industriale è quello che ha subito maggiormente la crisi.
    Fanno ben sperare i dati sulla distribuzione territoriale delle imprese. Nel periodo preso in considerazione, infatti, è il Sud l’area che fa registrare una crescita maggiore, con un saldo positivo di oltre 7.000 aziende. Tra le regioni del Mezzogiorno, bene soprattutto la Campania, dove il saldo tra iscrizioni e cessazioni è pari a +2.228.
    Il primato assoluto spetta però al Lazio (2.881 imprese in più). In termini relativi, invece, la crescita più sostenuta avviene in Basilicata (+0,95%), Sardegna (+0,53%) e Lazio (+0,45%).

    Le cooperative sono tra le forme giuridiche più dinamiche. Il tasso di crescita maggiore spetta alle società di capitali (+2,9%), seguito dalle altre forme, in particolare le coop, che presentano una variazione positiva dell’1,5%, corrispondente a +2.319 unità; mentre diminuiscono di oltre 6mila unità le imprese individuali.
    Il presidente di Confcooperative, Maurizio Gardini, ha commentato i dati di Unioncamere, sottolineando la capacità delle cooperative di creare aggregazione aumentando così il capitale disponibile. “La cooperativa – dichiara Gardini – si segnala come la forma d’impresa che più delle altre dimostra una spiccata vocazione a crescere collaborando. I dati Unioncamere-Infocamere certificano che per ogni mille imprese registrate, le cooperative che hanno dichiarato di avere sottoscritto un contratto di rete sono 9,3%, dato nettamente superiore e a tutte le altre tipologie d’impresa e più che doppio rispetto al 4,2 registrato dalle stesse cooperative a giugno 2014″.


  • innovazione sociale

    La Legge di Stabilità ha confermato anche per il 2017 il super-ammortamento per l’acquisto di beni strumentali. Ma l’aspetto più importante del provvedimento riguarda le agevolazioni per gli investimenti in innovazione tecnologica. 

    La finanziaria, infatti, ha inserito un altro bonus per gli imprenditori, ovvero l’iper-ammortamento al 250% per chi acquista beni relativi ad Industria 4.0. Ci innovazione socialesarà, dunque, la possibilità di aumentare del 150% il costo di acquisto di un prodotto tecnologico ai fini della deduzione fiscale.
    Uno degli elementi di debolezza dell’ecosistema imprenditoriale italiano è la scarsità di investimenti, specie in materia di innovazione. L’iper-ammortamento dovrebbe stimolare i privati a creare valore sui territori, rendendo le aziende più competitive sui mercati esteri.
    C’è grande attesa per capire quali saranno le categorie di beni che rientreranno nelle nuove agevolazioni. Al momento, come riporta Il Sole 24 Ore, nella bozza dell’allegato al provvedimento sono 47 le tipologie di beni ammissibili, con l’esecutivo che sta valutando se estendere ulteriormente il “paniere” di prodotti agli investimenti per la realizzazione di reti a banda ultra-larga.
    Per adesso sono quattro le macro-aree all’interno delle quali si inseriscono i beni finanziabili:

    • beni strumentali con funzionamento controllato da strumenti computerizzati e/o gestito tramite opportuni sensori e azionamenti (es. robot o magazzini automatizzati)
    • sistemi per l’assicurazione della qualità e della sostenibilità (es. strumenti per monitorare il consumo energetico o le prestazioni dei prodotti);
    • dispositivi per l’interazione uomo/macchina e per il miglioramento dell’ergonomia e della sicurezza del posto di lavoro in logica 4.0 (es. interfacce uomo-macchina, dispositivi di realtà aumentata, sistema per far comunicare l’addetto ed il sistema produttivo);
    • beni immateriali (es. software, sistemi e/0 system integration, piattaforme e applicazioni) connessi a investimenti in beni materiali Industria 4.0.

    Proprio l’inserimento di beni immateriali come i software è una delle principali novità, dal momento che questa tipologia di bene era esclusa dalle agevolazioni del super-ammortamento. Rispetto al precedente sistema di incentivi, invece, vengono esclusi dal super-ammortamento al 140% i veicoli ed i mezzi di trasporto che non vengono utilizzati esclusivamente per l’attività aziendale.


  • welfare-aziendale

    E se trasformassimo i premi retributivi in prestazioni di welfare integrativo, come i buoni pasto, l’assistenza medico-sanitaria e l’asilo nido per i figli dei dipendenti? 

    Devono averlo pensato le tante aziende che hanno deciso di sfruttare gli incentivi inseriti nella Legge di Stabilità ed investire nel cosiddetto welfare aziendale.
    Del resto le difficoltà dello Stato nell’erogazione dei servizi essenziali ai cittadini portano le istituzioni a cercare vie alternative, liberalizzando il settore e rendendo le prestazioni di welfare aziendale più convenienti.
    welfare-aziendaleIl “Rapporto Welfare 2016“, elaborato da OD&M Consulting, conferma la tendenza degli ultimi mesi. La ricerca prende in considerazione 216 imprese, di queste il 44% ha già implementato un piano di Welfare aziendale mentre il 41% intende attivarlo entro i prossimi due anni.
    La maggior parte degli imprenditori, dunque, mostra un forte interesse verso il welfare aziendale ed il 74% di essi ritiene siano stati fondamentali in tal senso gli incentivi previsti nella Legge di Stabilità, che inserisce, ad esempio, l’esenzione IRPEF dell’utilizzazione di opere e servizi messi a disposizione dei dipendenti e loro familiari anche se già previsti da disposizione di contratto, accordo o regolamento aziendale, mentre in precedenza la detassazione scattava solo se gli l’erogazione di servizi di welfare derivava da una decisione unilaterale del datore di lavoro.

    L’obiettivo degli imprenditori è migliorare la soddisfazione dei propri dipendenti e con essa anche la loro produttività. Il 53,7% delle aziende intervistate dichiara di avere avviato un piano di welfare aziendale per prendersi cura dei lavoratori, mentre il 58,9% delle imprese che intendono seguire questa strada nei prossimi anni lo fa perché attratto dalla possibilità di aumentare la produttività.
    La dimensione del risparmio e del miglior rendimento degli addetti è dunque dirimente nella scelta degli imprenditori: gli stessi dipendenti interpellati (59,7%) credono che le aziende che hanno implementato forme di welfare aziendale lo abbiano fatto per abbattere i costi del personale.
    I servizi più offerti infine, sono quelli di ristorazione (91% delle imprese), seguiti da quelli di assistenza sanitaria e di gestione del tempo come la flessibilità entrata-uscita, il telelavoro o il part-time.


  • reti d'impresa bando

    Gli imprenditori trovano poco attrattivi il Mezzogiorno e la Calabria. L’assunto, emerso dallo studio “L’attrattività percepita di regioni e province del Mezzogiorno per gli investimenti produttivi” di Dario Musolino, pubblicato sull’ultimo numero della Rivista Economica del Mezzogiorno, trimestrale della Svimez, appare piuttosto scontato. 
    Ci sono, però, alcuni elementi dell’indagine piuttosto interessanti che è bene approfondire. 

    La regione più attrattiva per gli imprenditori è la Lombardia che ha ottenuto un punteggio di 4,07 su 5. Alle sue spalle si classificano Emilia Romagna (3,92), reti d'impresa bandoVeneto (3,86), Piemonte (3,58), Toscana (3,37). Agli ultimi posti della graduatoria, come era prevedibile, ci sono Sicilia, Campania, Sardegna e Calabria.
    Le province presentano il medesimo andamento. Quella più attrattiva è Milano con uno score di 4,07, seguita da Brescia (4), Monza e Brianza (3,99), Bergamo (3,98). Agli ultimi due posti troviamo le province di Reggio Calabria (1,74), Crotone e Vibo Valentia (1,72).
    Che il Mezzogiorno e la Calabria siano delle aree dove è difficile fare impresa non è una sorpresa. C’è, però, un altro elemento di questa indagine che è tutt’altro che scontato.

    La ricerca mette a confronto le regioni più e meno sviluppate di alcuni paesi come la Germania, l’Olanda e per l’appunto l’Italia, verificando se esiste una corrispondenza tra percezione e realtà circa l’arretramento di una determinata area. L’intento, in parole povere, è scoprire se una regione sia meno arretrata di quanto l’opinione pubblica pensi.
    Lo studio mostra come in Germania e Olanda il gap di attrattività tra le regioni è percepito in modo inferiore rispetto alla realtà. In Germania, ad esempio, il divario di percezione è 1,71 contro il 2,1 del divario reale.
    In Italia, invece, abbiamo la situazione opposta, in quanto il divario reale è pari a 2 e quello di percezione sale a 2,34.
    Gli imprenditori possiedono, dunque, una cattiva opinione del Sud che risulta essere persino peggiore della realtà, per quanto quest’ultima sia effettivamente complessa.
    I fattori frenanti per lo sviluppo dell’attività di impresa vengono individuati nella carenza di infrastrutture di trasporto e logistica (26,4%), nella povertà del tessuto produttivo (presenza di clienti, fornitori, altre imprese: 21,3%), nella criminalità organizzata (13%) e nell’inefficienza della PA (3,5%).


  • imprese-femminili

    Unioncamere, con il contributo tecnico-scientifico di Si.Camera, ha realizzato il terzo Rapporto nazionale sull’imprenditoria femminile. 

    L’analisi monitora l’universo delle imprese femminili, facendo luce sulle tendenze recenti, i settori più diffusi, la composizione anagrafica e territoriale e le tipologie giuridiche.
    Il rapporto presenta diversi spunti interessanti. Noi vi presenteremo i dati a nostro avviso più significativi, con un passaggio anche sul rapporto tra donne e cooperative.

    Secondo gli ultimi dati, nel 2015, le imprese femminili ammontano a 1 milione e 312 mila, corrispondenti al 21,7% del totale imprenditoriale nazionale. Rispetto imprese-femminilial 2014 c’è una crescita contenuta, corrispondente a +10mila unità.
    Si tratta per lo più di imprese di piccola dimensione, se è vero che il 97% di esse è composto da meno di 10 addetti. Come è facile prevedere le donne sono maggiormente attive nel settore dei servizi, dove operano ben 850mila aziende femminili, corrispondenti al 65,5% del totale.
    Per far un confronto con l’altro sesso, le imprese a componente maschile operanti nel campo dei servizi rappresentano solamente il 54% del totale. Con la diminuzione della quota di attività legate alla produzione di cose, come l’agricoltura e la manifattura, ambiti che richiedono un maggiore sforzo fisico, è cresciuto il numero di donne occupate.
    Queste ultime hanno trovato nel settore dei servizi un campo particolarmente adatto alle proprie competenze e conoscenze, considerato anche il livello di istruzione che è generalmente più elevato tra le donne rispetto agli uomini.

    Se analizziamo nel dettaglio i settori economici di riferimento delle imprese femminili, al primo poso troviamo il commercio con oltre 371mila aziende “rosa”, seguito dall’agricoltura, silvicoltura e pesca (219.990), alloggio, ristorazione e servizi turistici (128.224) e altre attività di servizi alla persona (111.210).
    Sempre in riferimento alla tipologia di attività scelte, è interessante notare come le donne siano sempre più tecnologiche. Come evidenzia, infatti, il rapporto di Infocamere le imprese femminili nel settore ICT, sempre tra il 2010 e il 2015 e al netto delle società di persone, crescono ad un ritmo di molto superiore a quello medio riferito al resto dell’economia (+9,5 contro il +3%), sulla scia quasi esclusiva dell’aumento delle imprese nel comparto dell’informatica e telecomunicazioni (+11,5%) rispetto a quanto avvenuto nel comparto di media e comunicazione (+1,3%). In termini assoluti, le imprese femminili nel settore ICT sono cresciute di circa 1.800 unità, passando dalle 18.700 unità del 2010 alle 20.500 circa del 2015″.

    Le donne prediligono il modello della ditta individuale (53,9% sul totale delle imprese), ma non mancano anche le cooperative femminili. Sono circa 30mila le coop guidate da donne, corrispondenti al 2,5% del tessuto imprenditoriale femminile.
    Ci sono poi alcuni settori che presentano una maggiore diffusione di coop femminili. Stiamo parlando della sanità e dell’assistenza sociale, dove il 40% delle imprese femminili sono costituita sotto forma di cooperativa.
    È doveroso, infine, effettuare una riflessione sulle tendenze recenti dell’”impresa rosa”. Dal 2010 al 2015 il numero delle imprese femminili è aumentato di tre punti percentuali (+3,1%) contro il lieve incremento registrato da quelle maschili (+0,5%). In termini assoluti si è trattato di un’espansione della base imprenditoriale femminile di quasi +35 mila imprese, quasi il doppio della crescita di quella maschile (+18.500 circa).
    Le imprese femminili mostrano una crescita superiore rispetto a quelle maschili anche in termini occupazionali. Dal 2010 al 2014, infatti, in base ai dati Istat, l’occupazione femminile è aumentata dell’1,7% (+156 mila addetti), dimostrandosi in controtendenza rispetto alla flessione subita da quella maschile (-3,8%; -498 mila unità).

     


  • logo confindustria

    Confindustria, su proposta del presidente Vincenzo Boccia, ha nominato il nuovo Consiglio generale. 

    La squadra di governo, che sarà in carica fino al 2020, è composta da 6 vice-presidenti elettivi, 3 vice-presidenti di diritto e 16 membri dell’Advisory Board.
    Ecco di seguito l’elenco dei nomi presenti nel nuovo Consiglio generale.

    Vice-presidenti elettivi:

    • Giovanni Brugnoli, con delega al Capitale umano;
    • Lisa Ferrarini, con delega all’Europa;
    • logo confindustriaAntonella Mansi, con delega all’Organizzazione;
    • Licia Mattioli, con delega all’Internazionalizzazione;
    • Giulio Pedrollo con delega alla Politica Industriale;
    • Maurizio Stirpe, con delega a Lavoro e Relazioni Industriali.

    Vice-presidenti di diritto:

    • Alberto Baban, presidente Piccola Industria;
    • Marco Gay, presidente Giovani Imprenditori;
    • Stefan Pan, presidente del Consiglio delle Rappresentanze Regionali.

    Il presidente Boccia manterrà la delega sul credito e la finanza per la crescita, l’energia e le reti d’impresa.

    Advisory Board:

    • Francesco Caio, Francesco Gaetano Caltagirone, Gianfranco Carbonato, Elio Catania, Claudio De Albertis, Carlo De Benedetti, Claudio Descalzi, Vittorio Di Paola, Luca Garavoglia, Edoardo Garrone, Claudio Gemme, Mauro Moretti, Mario Moretti Polegato, Giuseppe Recchi, Roberto Snaidero e Francesco Starace.

    Le nomine verranno ratificate il 25 maggio 2016 nel corso dell’assemblea nazionale.