Categoria: Economia

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    Il Consiglio dei Ministri ha approvato nel tardo pomeriggio di ieri il Documento di Economia e Finanza (Def), il Programma Nazionale delle Riforme e la cosiddetta “manovrina” correttiva da 3,4 miliardi di euro, richiesta dall’Unione europea per evitare che l’Italia incorra in una procedura d’infrazione per il mancato rispetto dei parametri Ue sui conti pubblici. 

    Nel Def sono contenute, innanzitutto, le stime di crescita dell’Italia. Vengono riviste al rialzo le stime del Pil, portate dal da 1% al 1,1%. Più caute, invece, le previsioni per il 2018 ed il 2019: il Governo stima una crescita dell’1% per entrambi gli anni. Il Ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha parlato invece di una crescita più sostenuta per il 2020.
    Oltre alle precisazioni sugli indicatori economici, nel Documento di Economia e Finanza c’è spazio anche per la misura di contrasto alla povertà e per una serie di azioni sul welfare che dovrebbero – quantomeno nelle intenzioni dell’esecutivo – migliorare le prestazioni assistenziali.
    Viene confermato il Reddito di inclusione attiva (Rei), lo strumento di lotta alla povertà che è stato approvato nei mesi scorsi dal Parlamento attraverso una legge delega e che dovrà essere regolamentato nel dettaglio dal Governo.
    Per attuare questa misura l’esecutivo ha stanziato 2 miliardi euro solo per il 2017. L’Alleanza contro la povertà ha però calcolato che saranno necessari più di 7,5 miliardi di euro per aiutare tutti gli italiani che si trovano in stato di povertà assoluta.

    popolazione-europaAl momento, come riporta l’Istat, sono 4 milioni e 598mila i soggetti che non dispongono di un reddito sufficiente per acquistare cibo, vestiti, pagare le bollette ed usufruire dei servizi base.
    L’Italia è al momento l’unico paese europeo, insieme alla Grecia, a non possedere nel proprio ordinamento una misura universale di sostegno contro la povertà.
    Il Rei dovrebbe colmare questa lacuna. Si tratta di un assegno da 480 euro al mese per le famiglie povere con minori a carico.
    L’intento del Governo, però, è di estendere gradualmente lo strumento fino a renderlo universale per tutti gli individui che vivono in condizioni di povertà.
    L’assegno mensile dovrà essere accompagnanto da un percorso di inserimento lavorativo, pena l’esclusione dal sussidio.

    Nel Def c’è spazio, infine, anche per il welfare. Sono previsti, ad esempio, altri interventi per incentivare il welfare aziendale e la contrattazione di secondo livello; ci sarà pure un rafforzamento delle politiche attive con piani specifici per migliorare le competenze di chi non ha un lavoro e verranno introdotte delle misure di sostegno per il welfare familiare.
    Verrà effettuato, inoltre, un riordino delle prestazioni in materia di servizi sociali in modo da garantire una maggiore uniformità dei servizi su tutto il territorio nazionale.
    Per la prima volta, infine, viene inserito nel Def il Bes, l’indice del Benessere equo e sostenibile. Si tratta di un indicatore che misura il benessere di un Paese attraverso parametri non strettamente economici come l’ambiente e la qualità dei servizi sociali.
    Siamo ancora lontani dal vedere uno strumento come il Bes sullo stesso livello del Pil nelle analisi sulla ricchezza di una nazione europea, ma il fatto di dare spazio ad indicatori di questo tipo in un documento come il Def è sicuramente un passo importante verso un cambiamento del modo di intendere l’economia e di misurare la felicità di un popolo.


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    Continua la crescita delle esportazioni italiane. I dati dell’Istat, relativi al mese di gennaio, evidenziano come il 2017 sia iniziato nel migliore dei modi per il commercio italiano. 

    A gennaio 2017, infatti, rispetto al mese precedente, l’export aumenta dello 0,5% e l’import diminuisce dello 0,2%. La crescita congiunturale delle esportazioni è da ascrivere principalmente all’incremento delle vendite verso il mercato extra Ue (+2,8%), mentre l’export verso la zona Ue fa registrare una variazione negativa dell’1,3%.
    patrol-lineL’aspetto più incoraggiante della rilevazione Istat riguarda però la crescita tendenziale delle esportazioni. Nel confronto con un anno fa, infatti, la variazione positiva è addirittura del 13,3%. Una crescita che, aggiustata con gli effetti del calendario (nel mese di gennaio 2017 ci sono stati 21 giorni lavorativi contro i 19 del gennaio 2o16), è comunque rilevante e si attesta sul +10,1%.

    Anche il questo caso l’incremento riguarda in misura maggiore i paesi extra Ue (19,7%), anche se c’è da registrare un ottimo rendimento anche per quanto riguarda le vendite verso l’Europa (+9%).
    La maggiore dinamicità interessa i Paesi ASEAN (+57,0% su gennaio 2016), la Russia (+39,4%), la Cina (+36,5%), gli Stati Uniti (+35,8%), il Giappone (+28,8%) e la Germania (+9,6%).

    Questo vuol dire che le imprese italiane stanno crescendo dal punto di vista dell’internazionalizzazione e dell’appeal nei confronti dei paesi esteri, conquistando mercati dalle enormi potenzialità come la Cina ed il Giappone.
    Se analizziamo, infine, le singole categorie bene si nota che la crescita tendenziale dell’export è spiegata per due punti percentuali dall’aumento delle vendite di mezzi di trasporto, autoveicoli esclusi, e di macchinari e apparecchi n.c.a verso gli Stati Uniti e di metalli di base e prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti, verso la Germania.
    In generale tutti i raggruppamenti principali delle industrie fanno segnare una variazione positiva maggiore del 10%, con le vendite di beni energetici che crescono addirittura del 75,7% dopo il netto calo fatto registrare negli ultimi anni.


  • lavoro-inattivi

    La nota mensile dell’Istat, relativa a gennaio 2017, conferma la tendenza emersa il mese scorso. In Italia aumenta il numero di occupati, ma la crescita riguarda soprattutto gli over 50 per effetto dell’invecchiamento della popolazione e dell’innalzamento dell’età pensionabile. 

    Le tendenze emerse nella nota dell’Istat parlano, dunque, di un mercato del lavoro in lenta ripresa, ma che fatica a dare il via al ricambio generale. Se è vero, lavoro-inattiviinfatti, che a gennaio il tasso di disoccupazione giovanile è diminuito di 1,3 punti percentuali, passando dal 39,2% al 37,9%, è altrettanto vero che questa variazione negativa deriva principalmente dall’aumento del numero di inattività nella classe di età 15-24 anni.
    Vediamo, però, nel dettaglio qual è la situazione occupazionale per classi di età.

    Dal mese scorso l’Istat calcola la partecipazione al mercato del lavoro al netto della componente anagrafica, ovvero tenendo dell’invecchiamento della popolazione. Da questa rilevazione emerge che la variazione tendenziale del numero di occupati è positiva in tutte le classi di età: +0,9% tra i 15-24enni, +0,7% tra i 35-49enni e +2,5% tra i 50-64enni. Anche tenendo in considerazione l’invecchiamento generale della popolazione, quindi, permane il ruolo guida degli over 50 nei miglioramenti del mercato del lavoro italiano.
    In generale, a gennaio 2017, ci sono 30 mila occupati in più rispetto al mese scorso e 236mila in più rispetto ad un anno fa. Aumentano soprattutto gli addetti con contratti a tempo indeterminato e gli indipendenti, mentre diminuisce il numero di lavoratori con rapporti di lavoro a termine.
    La disoccupazione resta stabile all’11,9%, mentre i disoccupati aumentano del 4,2%, pari a +126 mila e calano gli inattivi (-3,3%, pari a -461 mila).


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    Questa settimana hanno destato scalpore i dati pubblicati dall’Istat sul mercato del lavoro italiano. La sorpresa non viene tanto e solo dal tasso di disoccupazione che rimane invariato al 12% o dalla disoccupazione giovanile che supera il 40%, ma dall’aumento notevole del numero di occupati over  50. 

    Rispetto ad un anno fa, a dicembre 2016 abbiamo addirittura 410 unità lavorative in più che hanno più di 50 anni. Dall’altra parte, invece, gli addetti di età compresa tra i 15 ed i 49 sono diminuiti di 168mila unità.
    Abbiamo di fronte, dunque, numeri abbastanza clamorosi che renderebbero ancora più evidenti le difficoltà del mercato del lavoro italiano ad assorbire l’offerta di lavoro giovane. C’è, però, una grande precisazione da fare e ad effettuarla è la stessa Istat.

    Ad influenzare il rendimento delle diverse classi di età è soprattutto l’invecchiamento della popolazione italiana. Nell’ultimo secolo e in misura ancora più pensioni-inpsevidente dopo la crisi, abbiamo assistito ad un progressivo innalzamento della età media della popolazione. Secondo gli ultimi dati Istat, relativi all’anno 2015, l’età media della popolazione italiana è di 44,4 anni, in aumento del 4,5% rispetto al 2005. Stessa dinamica per la speranza di vita: oggi la speranza di vita per una donna italiana è di 84,7 anni (+1,4% sul 2005) e per un uomo di 80,1 anni (+2,6% rispetto a dieci anni fa).
    I progressi tecnologici nel campo della medicina ed i processi di modernizzazione e secolarizzazione hanno portato enormi cambiamenti nella società italiana ed europea, spostando più in là di qualche anno l’età media della popolazione e diminuendo la fecondità. Anche nelle regioni del Mezzogiorno e tra le famiglie straniere c’è stata una diminuzione del numero di figli, causando così un vero e proprio deficit demografico.

    Così si spiegano anche i dati Istat sull’occupazione. Ci sono sempre più over 50 nel mercato del lavoro perché è assente qualsiasi forma di ricambio generazionale. Come spiega in maniera puntuale Infodata, negli ultimi due anni la popolazione under 50 è calata del 2,5%, mentre il numero di over 50 è aumentato del 3,1%, aggravando così il debito demografico. Lo stesso innalzamento dell’età pensionabile ha rinviato il turnover generazionale facendo crescere la quantità di “anziani” nei posti di lavoro.

    Siamo di fronte, dunque, ad un problema prima di tutto demografico che è, tra l’altro, di difficile soluzione. Secondo le ultime stime dell’Istat, infatti, nel 2065 l’età media della popolazione italiana sfiorerà i 50 anni e, salvo radicali cambiamenti sociali, è difficile prevedere un aumento della fertilità.
    Il gap generazionale è destinato, dunque, ad acuirsi e neanche i fenomeni migratori sembrano in grado di compensare questo squilibrio tra vecchi e giovani.
    Pare quindi che il vero problema, più di tanti altri maggiormente reclamizzati, possa essere l’invecchiamento della popolazione.

     


  • sanità italia

    La metà degli italiani non riesce ad arrivare a fine mese e per rimediare deve ricorrere ai propri risparmi; altri per sopperire agli effetti della crisi si rifugiano nell’aiuto dei genitori o tagliano le spese mediche. Non ci sorprende, dunque, se un italiano su quattro dichiara di sentirsi “abbastanza” o “molto” povero.

    Quelli appena riportati sono i principali risultati del Rapporto Italia 2017, elaborato come ogni anno da Eurispes. L’indagine è stata effettuata su un campione di 1.084 persone di genere, età e provenienza territoriale diversa.
    Il Rapporto Eurispes ci dice in sostanza che gli italiani non riescono ad elaborare vedere un progetto di vita chiaro e coerente nonostante la situazione dei consumi sia migliorata e la disoccupazione stia lentamente diminuendo.
    Gli italiani vivono ormai sempre più nel presente, lo dimostra il fatto che solo una persona su quattro riesce a mettere qualcosa da parte. La propensione al risparmio diminuisce progressivamente perché bisogna affrontare le spese quotidiane, divenute ormai stringenti e oppressive.

    sanità italiaUno dei costi principali è la casa. Secondo il rapporto Eurispes, infatti, “le rate del mutuo per la casa sono un problema nel 28,5% dei casi, mentre per il 42,1% di chi è in affitto lo è pagare il canone“.
    Ci sono poi da affrontare gli imprevisti, quegli eventi che riducono inevitabilmente la propria capacità di spesa e ti costringono a prendere delle contromisure drastiche. Tra le cause dell’impoverimento la principale è la perdita del lavoro (76,7%), seguita da una separazione o un divorzio (50,6%) e da una malattia propria o di un familiare (39,4%). Non vanno sottovalutate, inoltre, la dipendenza dal gioco d’azzardo (38,7%) e la perdita di un componente della famiglia (38%).
    Per rimediare, dunque, alla difficoltà ad arrivare a fine mese gli italiani ricorrono innanzitutto ai propri risparmi. Il 44,9%, infatti, è costretto ad utilizzare ciò che ha messo da parte negli anni precedenti per affrontare le spese mensili. Alcuni scelgono soluzioni più “radicali”.
    Il 32,6% del campione analizzato – dice Eurispes – ha dovuto ricorrere al sostegno economico della famiglia d’origine“, mentre il 13,8% degli intervistati è tornato a vivere a casa dei genitori.

    Il periodo di recessione ha portato quindi gli italiani a rinunciare a prestazioni, prodotti e servizi che erano diventati quasi quotidiani e scontati prima della crisi. Accade, ad esempio, che molti (23%) decidano di rinunciare alla babysitter e di affidare di conseguenza i propri figli a nonni e parenti.
    Ma uno degli aspetti più preoccupanti della ricerca riguarda i tagli alle prestazioni sanitarie. Il 38% del campione analizzato ha deciso, infatti, di ridurre le spese mediche contro il 34% del rapporto 2016. In generale la sanità non trova grande apprezzamento tra gli italiani.
    Il 54% (al Sud il 70%) non è soddisfatto del sistema sanitario nazionale a causa soprattutto delle lunghe attese per effettuare interventi ed esami medici. Il 42,2% degli italiani, inoltre, parla di strutture mediche fatiscenti ed il 41,8% si scaglia contro condizioni igieniche insoddisfacenti. C’è poi addirittura un 34% che dice di avere subito degli errori medici nella sanità pubblica.
    Il quadro generale, dunque, è tutt’altro che incoraggiante. Urge un intervento per porre freno all’impoverimento della classe media e migliorare i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie, ricorrendo – se è necessario – ad un sistema di welfare misto.


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    L’Italia fatica a crescere e quando lo fa non riesce ad includere la fasce più deboli della popolazione. Non a caso il nostro Paese si trova addirittura al 27° posto nella classifica sull’”Inclusive Development Index” nei 30 paesi più industrializzati, elaborata dal World Economic Forum.

    Negli ultimi giorni si parla tanto della crescita delle povertà e delle disuguaglianze, sia in Italia che su scala globale. Il Governo darà il via libera nei prossimi giorni al Reddito di Inclusione sociale, uno strumento di assistenza per i più poveri con l’obiettivo di contrastare la povertà ed aumentare il livello di inclusione di chi sta ai margini della società.
    La classifica del WEF è solo l’ennesima dimostrazione di come l’Italia abbia trascurato i problemi legati alla crescita inclusiva, sottovalutando le conseguenze della crisi sulla classe media. Uno degli effetti della recessione è stato proprio l’allargamento della fascia di persone a rischio povertà assoluta.
    Oggi i nuovi poveri sono i giovani e chi ha un lavoro ma non percepisce una retribuzione adeguata per poter beneficare dei servizi medici o per acquistare beni essenziali come quelli alimentari.

    istruzione-italiaMa quali sono gli aspetti che condannano l’Italia nelle retrovie della graduatoria sull’Inclusive Development Index? Sono cinque, nello specifico, gli indicatori per i quali l’Italia fa registrare il secondo peggiore risultato tra gli stati analizzati: infrastrutture digitali, inclusione finanziaria, occupazione produttiva, etica della politica e delle imprese e proprietà di case e asset finanziari.
    Preoccupa, però, anche la situazione di scuola e sanità. L’Italia, infatti, è solo 28esima per qualità dell’istruzione e per i servizi e le infrastrutture sanitarie.
    Ritornano, dunque, i soliti problemi strutturali del nostro Paese, ovvero la qualità dei servizi e la diffusione su tutto il territorio delle infrastrutture, non solo quelle legate ai trasporti ma anche quelle digitali.
    Secondo il rapporto vanno innanzitutto rivisti gli indicatori per misurare la crescita: da questo punto di vista sarebbe molto utile inserire degli strumenti che misurino l’impatto sociale dell’azione imprenditoriale.
    L’Italia fa meglio, invece, per quanto riguarda il livello delle retribuzioni (nono posto), l’accesso all’istruzione (14°) e le disposizioni fiscali (19°).
    Ai primi posti della graduatoria troviamo la Norvegia, davanti a Lussemburgo, Svizzera, Islanda, Danimarca e Svezia.



  • Nel mese di novembre aumentano le persone in cerca di lavoro e cresce in misura notevole il numero di disoccupati. 

    La nota mensile dell’Istat sugli occupati ed i disoccupati in Italia svela la vera identità del mercato del lavoro italiano. E non è un ritratto di bella fattura.
    Per mesi abbiamo invitato a guardare con cautela i dati sulla disoccupazione nel nostro Paese. La riduzione costante dei disoccupati ha avuto come motore principale gli sgravi contributivi. Ridotti gli incentivi si è spenta anche la spinta propulsiva del mercato del lavoro.
    Ma non finisce qui. I numeri positivi evidenziati nei mesi scorsi sono stati anche la diretta conseguenza dell’elevato tasso di inattività. Sempre più italiani, infatti, sono finiti nella bolla della sfiducia che li ha portati addirittura a smettere di cercare lavoro, causando in maniera indiretta la diminuzione del tasso di disoccupazione.

    L’inadeguatezza delle politiche attive è storicamente uno dei problemi più grandi del sistema Italia, una questione sottovalutata e rimasta irrisolta con il Jobs Act. Aumentare la flessibilità all’interno del singolo rapporto di lavoro senza inserire adeguati meccanismi di garanzia e di orientamento al lavoro rischia di portare a dei risultati negativi ed inattesi per l’esecutivo.
    La conferma viene proprio dagli ultimi dati. Non appena è aumentato il numero di persone in cerca di lavoro è aumentata in maniera esponenziale anche la quantità di disoccupati. Secondo l’Istat, nel mese di novembre, la stima degli inattivi è diminuita dello 0,7% (-93 mila unità) ed il tasso di inattività si attesta sul 34,8% (-0,2%).

    Il mercato del lavoro italiano dimostra al momento di non essere pronto ad accogliere la grande quantità di giovani e meno giovani in cerca di lavoro. La stima dei disoccupati risulta infatti in grande aumento (+1,9%, pari a +57 mila), dopo il calo dello 0,6% registrato nel mese precedente. Il tasso di disoccupazione è pari all’11,9%, nettamente il più alto degli ultimi dodici mesi. Per trovare un livello di disoccupazione più alto dobbiamo tornare a giugno 2015 (12,2%).
    Se analizziamo i dati su base annua le tendenze sono simili. Rispetto a novembre 2015, infatti,  aumentano i disoccupati (+5,7%, pari a +165 mila) e calano gli inattivi (-3,4%, pari a -469 mila).
    Appare evidente, dunque, che l’Italia fatichi ad intraprendere la strada della ripresa: le aziende sono ancora convalescenti per via della crisi della domanda interna e dell’elevato carico fiscale. Sarà fondamentale individuare le reali criticità del mercato del lavoro ed intervenire in maniera sistemica rifiutando la logica degli incentivi occasionali che hanno mostrato di generare effetti positivi sono nel brevissimo periodo.


  • poverta-caritas

    Qual è la percezione del livello di disuguaglianza sociale esistente in Italia? Secondo un’indagine realizzata da Demopolis per Oxfam su un campione di 3.000 intervistati, i cittadini italiani credono che le diseguaglianze siano fortissime e soprattutto che siano aumentate negli ultimi cinque anni (61% degli intervistati).

    Negli ultimi giorni vi abbiamo parlato di diversi studi sulla povertà nel nostro Paese, tutti concordi nell’affermare che il numero di indigenti è in costante aumento e abbraccia classi sociali ed anagrafiche differenti, interessando da vicino anche i giovani. Si tratta dunque di un grave problema sociale che dovrà nei poverta-caritasprossimi mesi diventare una priorità del Governo.
    Demopolis ha chiesto anche agli intervistati di individuare gli ambiti in cui si manifestano maggiormente le diseguaglianze e soprattutto quali sono, a loro avviso, le cause.
    Secondo il 76% dei cittadini italiani le disparità economiche e sociali sono espresse soprattutto dai livelli di reddito e quindi anche dalle differenti retribuzioni. La concentrazione delle risorse nelle mani di pochi individui si manifesta però anche nel patrimonio (63%) e nelle opportunità di accesso al mondo del lavoro (60%). Pure la sanità e l’istruzione vengono percepiti come un fattore di  diseguaglianza, a maggior ragione in cui periodo storico in cui lo Stato non riesce a garantire i servizi essenziali, specie nelle aree periferiche e rurali.

    È interessante, inoltre, osservare quali sono, secondo gli intervistati, le cause della persistente e crescente disparità economica e sociale presente in Italia. Secondo il 65% degli interpellati il principale fattore di diseguaglianza è rappresentato dall’evasione e dall’elusione fiscale; seguono a ruota le relazioni politiche e/o clientelari (64%) e le politiche in ambito economico e fiscale.
    I cittadini credono che un intervento per ridurre le diseguaglianze sia prioritario ed urgente (80% degli intervistati) e che soprattutto debba essere riformato l’intero impianto fiscale, ritenuto dall’82% come non equo.
    La lotta contro l’evasione, una maggiore redistribuzione delle risorse ed un sistema fiscale meno oppressivo devono essere, dunque, secondo i cittadini, le priorità del Governo per avere una società più giusta.


  • giovani-imprese

    Sono 4,6 milioni gli italiani che vivono in stato di indigenza assoluta, corrispondenti all’8% della popolazione. 

    Secondo i dati di Openpolis, negli ultimi dieci anni il numero di poveri è più che raddoppiato: nel 2005 gli indigenti erano 2 milioni, ma la crisi non ha fatto altro che acuire il disagio e le richieste di protezione sociale. L’Italia è stata infatti il quarto paese europeo in cui è cresciuto più di tutti il rischio di povertà tra i lavoratori.
    A questo punto viene spontaneo chiedersi chi siano i nuovi poveri, a quale classe sociale e a quale fascia di età appartengano.

    Innanzitutto, prima di scoprire quali categorie si sono impoverite maggiormente, è bene chiarire cosa si intende per persone che vivono in stato di indigenza assoluta.
    giovani-impreseSecondo l’Istat per poveri vanno intese quelle persone che non sono in grado di affrontare con continuità spese essenziali come quelle per il cibo, le cure mediche, vestiti, la casa e quanto altro. Esiste anche la cosiddetta povertà relativa, identificata dall’Istat attraverso una spesa media per consumi pro capite: se stai sotto quella soglia, versi in una condizione di povertà relativa.

    Ma andiamo oltre e cerchiamo di capire chi sono i nuovi poveri. Se ci concentriamo sulle classe sociali, Openpolis ci mostra che la professione che si è impoverita maggiormente è quella operaia, dove il tasso di povertà assoluta è passato dal 3,9% del 2005 all’11,7% del 2015. Una sorte simile ha colpito quelle famiglie dove il capo famiglia è un lavoratore autonomo che hanno visto un raddoppio del rischio di povertà.
    Bisogna sottolineare, inoltre, che avere un’occupazione non aumenta di molto le possibile di possedere una forma di stabilità economica. Sono sempre di più infatti le persone che lavorano solo poche ore a settimana e svolgono occupazioni part-time usufruendo dei voucher (25mila persone nel 2005 e 1,4 milioni nel 2015).

    Ma il dato più allarmante riguarda i giovani. Come sottolineato dal cinquantesimo rapporto Censis per la prima volta i giovani sono più poveri dei propri nonni. Anche la ricerca Openpolis conferma questa tendenza.
    Rispetto al 2011, infatti, il tasso di povertà tra gli anziani è diminuito dello 0,4%, mentre è triplicato tra i giovani di età compresa tra i 18 ed i 34 anni.
    Non è un caso che l’Italia sia per il paese europeo con il più alto numero di Neet (giovani che non studiano e non lavorano) nella fascia di età 18-24 anni. Ci sono dunque sempre più ragazzi in condizioni di difficoltà e sempre più famiglie composte da giovani che si trovano in stato di indigenza assoluta (8% del totale).

    Non va meglio alle donne e ai bambini. La percentuale di donne in stato di povertà, infatti, è passata dal 3,5% del 2005 al 7% del 2015 per via soprattutto delle difficoltà a conciliare lavoro e vita privata e dell’aumento delle differenze salariali tra uomo e donna (l’Italia è uno dei cinque paesi europei dove durante la crisi si è acuita la differenza salariale di genere).
    L’Italia è anche il secondo paese europeo nel quale è aumentata di più la povertà infantile: nel 2015 – racconta Openpolis – l’11,4% dei bambini con meno di 6 anni vive in una situazione di grave privazione materiale.


  • qualità della vita 2016

    Aosta e Vibo Valentia sono due province agli antipodi. Lo sono innanzitutto per la collocazione geografica: una al confine con la Francia e la Svizzera ed abbracciata dalle Alpi, l’altra immersa nel profondo Sud, con i suoi sprechi, le sue contraddizioni ed il suo fascino mediterraneo quasi primordiale. 

    Ma la distanza tra le due realtà non è tracciata tanto dai chilometri o dalle diversità paesaggistiche, quanto dalla qualità della vita. Come ogni anno Il Sole 24 Ore ha stilato la classifica sulla qualità della vita nelle province italiane. L’indagine non prende in considerazione la soddisfazione e la felicità dei cittadini, ma si qualità della vita 2016limita a valutare le opportunità offerte ai propri abitanti.
    Ciascuno di noi, per sviluppare la propria personalità e mettere a frutto i propri talenti, ha bisogno di un contesto cittadino adeguato, di territori che offrano stimoli culturali, che sappiano garantire sicurezza e servizi essenziali, oltre ovviamente ad assicurare opportunità di lavoro e di reddito.
    La classifica de Il Sole 24 Ore analizza 42 indicatori (l’anno scorso erano 36) suddivisi in sei categorie:

    • Reddito, risparmi, consumi
    • Affari, lavoro, innovazione
    • Ambiente, servizi, welfare
    • Demografia, famiglia, integrazione
    • Giustizia, sicurezza, reati
    • Cultura, tempo libero, partecipazione

    La classifica finale non è altro che la somma dei punteggi ottenuti dalle singole province nei diversi indicatori. Può accadere che un territorio abbia un rendimento scadente per quanto riguarda il Pil pro capite o il tasso di disoccupazione, ma che presenti canoni di locazione bassi ed un numero limitato di scippi e borseggi. E questo è il caso delle province del Mezzogiorno, specie della Calabria, dove però livelli di reddito bassissimi, la scarsa natalità delle imprese e tassi di disoccupazione tra i più alti d’Europa riducono le opportunità di ascesa sociale dei cittadini.

    Quest’anno all’ultimo posto della graduatoria de Il Sole 24 Ore si colloca proprio Vibo Valentia. La provincia calabrese toglie questo poco ambito primato ad una corregionale, ovvero Reggio Calabria.
    Vibo perde innanzitutto la sfida occupazionale, specie tra i più giovani, dove il tasso di disoccupazione supera addirittura il 60%. Giovani che non trovano lavoro e sono costretti dunque a lasciare la propria terra per emigrare in altre zone d’Italia o all’estero. Non è un caso che Vibo presenti il più alto tasso di migrazione dei propri abitanti. Non va meglio la pagella ambientale e quella culturale, che raccontano una provincia povera di opportunità ricreative e colma di abusi edilizi, abitazioni non finite ed industrie abbandonate.

    Al primo posto, invece, per la terza volta da quando venti sette anni fa è nata questa indagine, troviamo Aosta. Il primato valdostano è l’ennesima conferma dell’elevata qualità della vita delle piccole e media realtà cittadine italiane, soprattutto quelle situazione in aree montane. Gli indicatori economici parlano tutti a favore della provincia al confine con la Francia. Aosta, tra le altre cose, dimostra di essere sempre più innovativa grazie alla nascita di startup dall’elevato contenuto tecnologico.
    Voti alti anche sulla demografia, il patrimonio immobiliare e l’ordine pubblico. Tra le metropoli spicca il secondo posto di Milano, patria delle startup ed in generale vero e proprio motore dell’economia italiana.
    Terzo posto per Trento, davanti a Belluno e Sondrio. Roma invece si colloca al 13° posto, mentre Napoli sprofonda in quartultima posizione, davanti solo a Caserta e per l’appunto a Reggio Calabria e Vibo Valentia.


  • inattivita-italia

    Ottobre non è stato un mese positivo per l’Italia. Lo riporta l’Istat nella sua comunicazione mensile sul mercato del lavoro italiano. Nonostante il tasso di disoccupazione giovanile abbia toccato il proprio livello minimo dal 2012 (36,4%), sono soprattutto i dati sull’inattività che necessitano un’analisi più approfondita. 

    In questa sede abbiamo sottolineato in diverse occasioni quanto sia importante agire sugli “scoraggiati”, ovvero quelle persone che non hanno un lavoro e neppure lo cercano. Si tratta di un problema di natura quasi ancestrale per l’Italia che mette in luce tutta la debolezza delle nostre politiche attive.
    inattivita-italiaNon può bastare di certo un programma come Garanzia Giovani per porgere la mano a chi è fuori dal mercato del lavoro.
    I dati di ottobre sono emblematici. Il tasso di disoccupazione è dell’11,6%, con una variazione negativa di 0,1 punti percentuali rispetto a settembre. Questo parziale calo della disoccupazione è da attribuire però principalmente all’aumento del tasso di inattività: meno persone cercano lavoro, infatti, e meno sono le persone che tecnicamente vengono definite “disoccupate”.
    Ad ottobre il numero di inattivi è aumentato di 82mila unità (+0,6%), compensando subito il calo avvenuto a settembre. La variazione negativa dello 0,8% evidenziata nell’ultima elaborazione dell’Istat aveva fatto sperare in un’inversione di tendenza del mercato del lavoro italiano.

    In realtà il sistema Italia si dimostra ancora instabile e legato a dinamiche prettamente congiunturali. Nell’ultimo mese, ad esempio, ci sono stati 30mila occupati in meno, una variazione negativa che riguarda soprattutto le forme contrattuali a tempo indeterminato.
    Abbiamo, dunque, l’ennesima conferma di come i dati positivi sull’occupazione dipendano soprattutto dagli incentivi sulle assunzioni stabili che hanno portato i datori di lavoro a stipulare nuovi contratti a tempo indeterminato. Con la riduzione delle agevolazioni il mercato del lavoro italiano è tornato nell’immobilismo, seppur in miglioramento rispetto ad un anno fa.
    Tredici milioni di inattivi sono ancora troppi, solo quando questo numero inizierà a scendere in maniera decisa e costante potremo guardare con maggiore fiducia alla situazione occupazionale italiana.



  • Nel 2015 aumenta dell’1,4% il numero di lavoratori dipendenti nel settore privato. Secondo l’Inps, infatti, siamo passati dagli 11 milioni e 740 mila dipendenti del 2014 agli 11 milioni e 900mila del 2015. 

    La crescita del numero di occupati è determinata soprattutto dagli incentivi fiscali inseriti nella Legge di Stabilità 2015 che prevedeva sgravi contributivi fino a 8.060 euro per le nuove assunzioni con contratti a tempo indeterminato. A confermare questa tendenza sono anche i dati sulle tipologie contrattuali degli impiegati nel 2015
    voucher lavoroNell’85% dei casi, infatti, i lavoratori dipendenti hanno un contratto a tempo indeterminato. Il boom dei rapporti stabili è destinato, però, a sgonfiarsi nel 2016 a causa della riduzione degli incentivi fiscali. Il mercato del lavoro italiano ha vissuto in questi mesi un rendimento altalenante, nonché dipendente dalla presenza o meno di incentivi per le nuove assunzioni. Per questo motivo il Governo ha deciso di re-introdurre la de-contribuzione totale, limitandola però solamente alle aziende del Mezzogiorno che assumono giovani fino a 24 anni. Vedremo nei prossimi mesi che effetti avrà questo pacchetto di incentivi in un contesto, come quello meridionale, dove il tasso di disoccupazione giovanile supera abbondantemente il 50%.

    Tornando all’indagine dell’Inps, se ci soffermiamo sulle tipologie di lavoratori, a primeggiare sono gli operai, con 6 milioni e 270 mila unità (52,6% del totale dei lavoratori dipendenti); seguono gli impiegati (37,7%), gli apprendisti e i quadri (entrambi al 3,1%) e i dirigenti (0,8%).
    Sempre oggi l’Istat ha reso note le previsioni sull’economia italiana, evidenziando come per il 2016 sia prevista una crescita del Pil in termini reali dello 0,8%, mentre per il 2017 la variazione positiva dovrebbe essere dello 0,9%.
    Per quanto riguarda l’occupazione, invece, secondo l’Istat nel 2o16 ci dovrebbe essere una riduzione del tasso di disoccupazione, che arriverà a fine anno all’11,5%. Nel 2017 dovrebbero continuare i miglioramenti del mercato del lavoro italiano, con un aumento degli occupati dello 0,6% e la diminuzione del -0,2% della disoccupazione (11,3%).