Venerdì scorso il Consiglio dei Ministri ha approvato due decreti attuativi sulla riforma del mercato del lavoro.
Il primo e più discusso prevede l’istituzione del nuovo contratto a tutele crescenti.
Il secondo e meno reclamizzato provvedimento introduce alcune modifiche nella disciplina degli ammortizzatori sociali.
Il premier Matteo Renzi ha definito questa serie di misure come un passo importante verso una maggiore garanzia dei lavoratori, una volta usciti dal circolo occupazionale.
La principale novità in tal senso è l’introduzione della cosiddetta Naspi.
Si tratta di un’indennità di disoccupazione e riguarda i lavoratori del settore privato che hanno perso il proprio posto di lavoro.
Sostituisce il precedente sussidio (Aspi e mini-Aspi), aumentando la cifra dell’indennizzo ed il suo periodo massimo di durata.
Mentre l’Aspi, infatti, veniva corrisposta in base allo stipendio medio del lavoratore, per un massimo di 1.195,37 euro al mese, la Naspi prevede un sussidio pari al 75% del compenso mensile del dipendente e fino ad un massimo di 1300 euro.
C’è, dunque, una copertura finanziaria maggiore, coordinata con un aumento della durata del sussidio, che passa dai 10-16 mesi dell’Aspi ad i 24 mesi massimi della Naspi.
Per quanto riguarda, invece, i requisiti per poter accedere a questo ammortizzatore sociale, bisognerà avere ottenuto almeno 13 settimane di contributi negli ultimi 4 anni e 30 giornate di lavoro effettive negli ultimi 12 mesi.
Il decreto attuativo sugli ammortizzatori sociali contiene, però, altri istituti rilevanti.
Uno di questi è il sussidio di disoccupazione per le famiglie disagiate.
In sostanza si configura come una sorta di prosecuzione della Naspi per un periodo, però, non superiore a sei mesi.
Si parla di famiglie disagiate perché è rivolta a quei lavoratori che si trovano in difficoltà economica, hanno figli minorenni a carico o sono vicini alla pensione; l’ammontare del contributo corrisponde al 75% dell’ultimo assegno Naspi.
Un aspetto molto importante di questa misura riguarda l’obbligo per i disoccupati di seguire uno specifico percorso di reinserimento nel mondo del lavoro, pena la perdita del sussidio.
La capacità di ri-professionalizzare un lavoratore è la caratteristica principale dei sistema occupazionali basati sulla flexicurity, vigenti sopratutto nell’Europa del Nord.
Più volte in Italia si è tentato di introdurre elementi che bilanciassero flessibilità e sicurezza, eliminando gradualmente alcune tutele all’interno del rapporto di lavoro ed incentivando le garanzie in entrata (minor costo del lavoro per le nuove assunzioni, forme contrattuali più vantaggiose per il datore di lavoro, ecc.)
Sono mancati, però, gli strumenti adeguati per il reinserimento del lavoratore una volta perso il proprio posto di lavoro. L’Italia deve certamente incentivare i corsi di professionalizzazione per i disoccupati: solo in questo modo che la flessibilità potrà verificarsi non solo in un’uscita, ma anche e soprattutto in entrata.
Un cittadino, infatti, deve avere la possibilità di adattarsi alle nuove esigenze del mercato ed apprendere nuove competenze. Un simile bilanciamento di flessibilità e sicurezza può certamente aiutare l’Italia ad diminuire il proprio tasso di disoccupazione ed intraprendere finalmente la strada della crescita.