Il decreto di riforma delle Banche di Credito Cooperativo ha scatenato diverse reazioni sdegnate nel mondo della cooperazione.
Il vicepresidente vicario di Confcooperative, Maurizio Ottolini, ha parlato di una “violenza istituzionale” che “riporta indietro di decenni, ai giorni del Fascismo che sciolse le associazioni cooperative”; il presidente di Confcooperative, Maurizio Gardini, ha parlato, invece, di una “pagina dolorosa per la cooperazione italiana” che rischia di mettere in discussione valori e pratiche coltivati in questi anni.
Ma qual è la norma in questione e quali sono le ragioni che hanno spinto le cooperative ad insorgere?
Il decreto approvato mercoledì sera in Consiglio dei Ministri obbliga le Bcc ad aderire un’unica holding che svolgerà le funzioni di capogruppo dell’intero sistema. Non sarà più il singolo istituto di credito a gestire le criticità e le sofferenze bancarie, ma sarà al contrario tutto il sistema a condividere i rischi aiutando la banca in difficoltà.
C’è, però, un’importante eccezione che fa saltare l’intero impianto normativo e rischia di creare un pericoloso precedente.
Nel comunicato del Governo in seguito al Consiglio dei Ministri si aggiunge infatti che “La Bcc che non intende aderire ad un gruppo bancario, può farlo a condizione che abbia riserve di una entità consistente (almeno 200 milioni) e versi un’imposta straordinaria del 20 per cento sulle stesse riserve. Non può però continuare ad operare come banca di credito cooperativo e deve deliberare la sua trasformazione in spa. In alternativa è prevista la liquidazione”.
Il patrimonio accumulato dalle cooperative è frutto di rilevanti agevolazioni fiscali a disposizione delle Bcc, ma cosa ancora più importante appartiene ai soci e alle comunità di riferimento. Le risorse degli istituti di credito cooperativo sono in altre parole delle riserve indivisibili.
Inserire una norma che consente di trasformare una Bcc in una spa, portando con se il capitale accumulato con una tassazione solamente del 20%, significa dividere delle risorse che erano indivisibili e negare un principio che sembrava indiscutibile.
Tra l’altro è da rilevare una modifica dei criteri di way-out. Il decreto approvato in Gazzetta ufficiale, a differenza del comunicato stampa, non parla più di riserve ma di patrimonio netto oltre i 200 milioni di euro per poter trasformare la Bcc in SpA.
La differenza è sostanziale: sono poche le Bcc che possiedono riserve superiori ai 200 milioni, mentre sono diversi gli istituti di credito cooperativo che hanno un patrimonio netto di più di 200 milioni di euro. Difficile capire se si tratti di un errore materiale o di un cambiamento in itinere volto ad allargare la platea di banche che possono optare per la fuoriuscita dal sistema dell’unica capogruppo.
Non è da sottovalutare, inoltre, il rischio che alcune cooperative rivendichino loro stesse il diritto di trasformarsi in società per azioni, come avverrà per l’appunto per le Bcc, portando con se il capitale sociale della coop.
La cooperativa è prima di tutto un’impresa che agisce partendo da e per la comunità. Non a caso l’articolo 45 della Costituzione disciplina la sua funzione sociale a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata.
Proprio in merito all’art. 45 della Costituzione sorgono ulteriori dubbi. In questi giorni il presidente di Federcasse, Alessandro Azzi, ha sollevato alcuni dubbi sulla costituzionalità della riforma. “Chi non aderisce può anche trasformarsi in SpA – ha dichiarato Azzi – ma deve lasciare le riserve ai fondi mutualistici. Perché altrimenti si tradisce l’articolo 45 della Costituzione sulle finalità mutualistiche del denaro raccolto sul territorio e che appartiene ai soci delle cooperative”
In via definitiva, permettere un passaggio così facile verso realtà che fanno del profitto il proprio scopo ultimo, vuol dire mettere in crisi valori consolidati e sferrare un duro colpo a chi crede in questi principi.