Categoria: Legale


  • Il pagamento del Canone Rai non riguarda soltanto le famiglie italiane, ma anche i titolari di attività commerciali. Questa fattispecie è definita dal nostro ordinamento come Canone speciale Rai e riguarda nello specifico i titolari di un’impresa, esercizi pubblici, i liberi professionisti o chi ha un’attività aperta al pubblico come bar, hotel o pizzerie. 

    La recente evoluzione tecnologia consente, però, agli utenti di guardare i contenuti Rai anche in streaming da Pc, tablet o smartphone. Molti professionisti ed miur-bandiimprenditori si chiederanno a questo se le visione dei programmi Rai in streaming obblighi comunque al pagamento del cosiddetto Canone speciale.
    La normativa italiana non offre grandi chiarimenti perché la legge di riferimento è addirittura il Regio Decreto 246 del 1938, il quale stabilisce che devono pagare il canone speciale coloro che detengono uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radio televisive in esercizi pubblici, in locali aperti al pubblico o comunque fuori dell’ambito familiare, o che li impiegano a scopo di lucro diretto o indiretto. 

    A fornire però delle delucidazioni in merito ci ha pensato la stessa Rai nel 2012. Un comunicato stampa della televisione pubblica ha chiarito, infatti, che il canone è dovuto solo per il possesso di apparecchi atti alla ricezione televisiva e non per altri mezzi come computer, tablet e smartphone, anche se collegati ad Internet.
    Anche l’Agenzia delle Entrate ha confermato questa interpretazione, specificando che il pagamento è dovuto solo in presenza di un sintonizzatore radiotelevisivo.



  • Lo scorso 29 maggio il Parlamento ha approvato la legge di contrasto al cyberbullismo. Si tratta di un fenomeno sempre più diffuso in tutto il mondo e che riguarda soprattutto bambini e adolescenti.

    Per cyberbullismo si intende “qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo“. 

    Le istituzioni italiane hanno deciso di costruire un quadro normativo specifico assegnando alla scuola un ruolo di primo piano nella lotta alla cyberbullismo-leggediffusione della violenza sul web. Ciascun istituto scolastico, infatti, dovrà formare il proprio personale su questo tema e dovrà nominare un proprio referente interno che avrà il compito di coordinare le attività di prevenzione e contrasto al cyberbullismo.
    Lo Stato dà inoltre la possibilità agli uffici scolastici regionali di pubblicare dei bandi e di promuovere iniziative per sensibilizzare studenti e genitori e combattere attivamente la diffusione del fenomeno.

    La legge, infine, prevede il coinvolgimento attivo delle piattaforme web. Le vittime di cyberbullismo, o i loro genitori, infatti, possono chiedere al titolare del trattamento o al gestore del sito internet o del social media la rimozione di contenuti sconvenienti apparsi sul web mediante oscuramento. Qualora, però, il gestore non comunichi l’impegno alla rimozione entro le 24 ore e non provveda entro 48 ore, o nel caso in cui non sia possibile individuare il gestore del sito o del social media, la richiesta potrà essere indirizzata al Garante per la privacy il quale dovrà provvedere entro le 48 ore successive.
    La legge rappresenta in via definitiva un primo doveroso passo nella lotta ad un fenomeno che ha causato pregiudizi morali a tanti bambini. 


  • part time lavoro

    Sino al 2015, ovvero sino all’entrata in vigore del Jobs Act (D.Lgs. 81/15) il contratto di lavoro part-time o a tempo parziale poteva essere distinto in 3 diverse tipologie che si differenziavano rispetto al “tempo pieno” per la distribuzione del monte ore di lavoro:

    – orizzontale, con riduzione dell’orario rispetto al normale orario di lavoro giornaliero:

    – verticale, con fissazione della prestazione solo in alcuni predeterminati giorni della settimana, del mese o dell’anno;

    – misto, secondo una combinazione delle due modalità precedentemente indicate.

    Oggi, invece, tali definizioni sono oramai non più valide, in quanto la nuova normativa ha eliminato la differenzazione tra part time orizzontale, verticale e misto così come quella tra clausole elastiche e clausole flessibili, limitandosi a precisare che ogni assunzione può avvenire a tempo pieno, ai sensi dell’art. 3 del decreto legislativo n. 66/2003, o a tempo parziale (art. 4, D.Lgs. 81/2015).

    part time lavoroMa qual è la distribuzione giornaliera dell’orario di lavoro e, quindi, la disponibilità che il lavoratore deve necessariamente garantire al proprio datore di lavoro? La disciplina precedente al Jobs Act, ovvero l’art. 2, co. 2, del D.Lgs. 61/00 (applicabile ai contratti stipulati prima del 24.06.2015), stabiliva testualmente che “Nel contratto di lavoro a tempo parziale è contenuta puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno”, mentre per “nuovi” contratti sottoscritti successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. 81/15, garante certamente di una maggiore flessibilità a favore del datore di lavoro, si è stabilito che “2. Nel contratto di lavoro a tempo parziale è contenuta puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. 3. Quando l’organizzazione del lavoro è articolata in turni, l’indicazione di cui al comma 2 può avvenire anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite” (art. 5, commi 2 e 3, D.Lgs. 81/15).

     

    Appare evidente una continuità di regole e principi nelle due norme sopra riportate: così come stabilito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 210 nel lontano 1992, l’obbligo di stabilire, nell’atto di assunzione, sia la durata complessiva sia  gli orari della prestazione lavorativa, ha lo scopo di consentire al lavoratore a tempo parziale di svolgere un’ulteriore attività, nonché di disporre liberamente del proprio tempo di vita. L’ammissibilità di un contratto di lavoro a tempo parziale nel quale sia riconosciuto il potere del datore di lavoro di determinare o variare unilateralmente, a proprio arbitrio, la collocazione temporale della prestazione lavorativa, sarebbe in contraddizione con le ragioni alle quali è ispirata la disciplina di tale rapporto. Secondo la Corte garante dei supremi diritti, infatti, così “come ha giustamente rilevato la giurisprudenza della Cassazione, il rapporto di lavoro a tempo parziale si distingue da quello a tempo pieno per il fatto che, in dipendenza della riduzione quantitativa della prestazione lavorativa (e, correlativamente, della retribuzione), lascia al prestatore d’opera un largo spazio per altre eventuali attività, la cui programmabilità, da parte dello stesso prestatore d’opera, deve essere salvaguardata, anche all’ovvio fine di consentirgli di percepire, con più rapporti a tempo parziale, una retribuzione complessiva che sia sufficiente (art. 36, primo comma, della Costituzione) a realizzare un’esistenza libera e dignitosa”.

    Secondo la giurisprudenza di legittimità “la distribuzione oraria (in relazione al giorno, alla settimana, al mese o a periodi più lunghi) integra il nucleo stesso del contratto a tempo parziale e la ragion d’essere della particolare garanzia costituita dall’imposizione della forma scritta, per evitare che il datore di lavoro, avvalendosi d’una carente o generica pattuizione scritta sulla distribuzione dell’orario, possa modificarla a proprio piacimento a fini di indebita pressione sul lavoratore” (Cass. n. 1430/12). Ne deriva che il contratto che non indichi la corretta distruzione dell’orario di lavoro è quindi parzialmente nullo.

    Resta da capire quale sia la conseguenza di tale grave vizio: sul punto l’art. 8, co. 2, del D.Lgs. 61/00 è inequivocabile: “L’eventuale mancanza o indeterminatezza nel contratto scritto delle indicazioni di cui all’articolo 2, comma2, non comporta la nullità del contratto di lavoro a tempo parziale. Qualora l’omissione riguardi la durata della prestazione lavorativa, su richiesta del lavoratore può essere dichiarata la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla data del relativo accertamento giudiziale. Qualora invece l’omissione riguardi la sola collocazione temporale dell’orario, il giudice provvede a determinare le modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale con riferimento alle previsioni dei contratti collettivi di cui all’articolo 3, comma 7, o, in mancanza, con valutazione equitativa, tenendo conto in particolare delle responsabilità familiari del lavoratore interessato, della sua necessità di integrazione del reddito derivante dal rapporto a tempo parziale mediante lo svolgimento di altra attività lavorativa, nonché delle esigenze del datore di lavoro. Per il periodo antecedente la data della pronuncia della sentenza, il lavoratore ha in entrambi i casi diritto, in aggiunta alla retribuzione dovuta, alla corresponsione di un ulteriore emolumento a titolo di risarcimento del danno, da liquidarsi con valutazione equitativa . Identico testo, prova di una continuità nella tutela di un basilare diritto del lavoratore, è contenuto nel “nuovo” art. 10, co. 2, del D.Lgs. 81/15 (c.d. Jobs Act).

    Ed invero la giurisprudenza, in applicazione di una norma che certo non permette spazi interpretativi, ha più volte stabilito che qualora il giudice accerti nel contratto di lavoro individuale a tempo parziale l’omissione della collocazione temporale della prestazione lavorativa dedotta in obbligazione, lo stesso deve procedere sia all’integrazione della lacuna sia alla quantificazione del risarcimento del danno automaticamente conseguente all’omissione e spettante al lavoratore.


  • il parere legale

    Il Presidente di Confcooperative Calabria, Camillo Nola, ha di recente denunciato gli enormi sprechi e le dilapidazioni del Consorzio Sibari-Crati, definendolo il “Mose calabrese” ed invocando l’intervento dell’autorità giudiziaria, squarciando di netto decenni di silenzio e di omissioni sulla gestione spesso scandalosa dei consorzi di bonifica calabresi.

    Al di la della specificità del caso “Sibari-Crati”, vi è da valutare quale sia oggi il reale e residuo scopo di enti nati per garantire sicurezza territoriale, ambientale ed alimentare del Paese, contribuendo in tal modo ad uno sviluppo economico sostenibile, e che con triste frequenza si sono rivelati – almeno per quanto attiene la realtà calabrese – inutili orpelli di una inefficace e sterile politica.

    In questa sede analizzeremo alcune specifiche incombenze in capo a tutti i Consorzi di bonifica, cercando di comprendere se e come nella realtà calabrese tali doveri siano rispettati: ci riferiamo agli obblighi discendenti dalla legge n. 190/12 in materia di anticorruzione e dal d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 in materia di trasparenza, cui i Consorzi di bonifica, al pari delle pubbliche amministrazioni, sono sottoposti.

    E’ bene ricordare che i Consorzi di bonifica sono enti pubblici economici a struttura associativa il cui ambito di operatività è prettamente locale: sino il parere legaleall’entrata in vigore dell’art. 24 bis del D.l. 90/14, introdotto dalla legge di conversione n. 114/14, vi erano forti incertezze circa l’applicabilità a detti enti della normativa in materia di trasparenza ed anticorruzione, ma successivamente alla citata novella l’incertezza è venuta del tutto meno. Ed invero grazie a tale ultima norma, contenente l’espressa indicazione degli enti locali non territoriali tra i soggetti a cui estendere l’ambito di applicazione della L. n. 190/12 e del D.lgs. n. 33/13, i residui dubbi sono stati del tutto diradati, poiché i consorzi in oggetto, vigilati dalla Regione, rientrano certamente nella categoria degli “enti di diritto pubblico non territoriali nazionali, regionali o locali, comunque denominati, istituiti, vigilati, finanziati dalla pubblica amministrazione” di cui al citato art. 24 bis.

    La tesi qui sostenuta è stata infine condivisa anche dall’A.N.B.I., ovvero l’Associazione nazionale che rappresenta e tutela gli interessi dei Consorzi di bonifica nel nostro Paese e, ancor più significativo, dalla stessa A.N.A.C. – Autorità Nazionale Anticorruzione, ovvero dall’Autorità oggi delegata alla prevenzione ed alla vigilanza in materia di anticorruzione e trasparenza, con il comunicato del proprio presidente, dott. Raffaele Cantone, del 22.04.2015. In conclusione è da ritenere con certezza che i Consorzi di bonifica sono soggetti alla medesima disciplina prevista per le pubbliche amministrazioni.

    Vediamo quindi di capire ed individuare quali sono i principali obblighi, o quantomeno quelli più significativi, cui ottemperare e da pubblicare sul sito istituzionale del singolo Consorzio:

    • sezione “Amministrazione trasparente” (art. 9 D.Lgs. 33/13), al cui interno devono essere contenuti “i dati, le informazioni e i documenti pubblicati ai sensi della normativa vigente”;
    • nomina del Responsabile per la trasparenza, il quale dovrà assicurare la completezza, la chiarezza e l’aggiornamento delle informazioni pubblicate (art. 43 D.Lgs. 33/13);
    • garanzia dell’Accesso civico, strumento grazie al quale chiunque può richiedere documenti, informazioni e dati nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione (art. 5 Lgs. 33/13);
    • obbligo di pubblicazione dei dati relativi ad enti pubblici, comunque  denominati,  istituiti, vigilati e finanziati dal consorzio medesimo (art. 22 D.Lgs. 33/13);
    • adozione del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità (PTTI) ex art 10 D.Lgs. 33/13, che di norma costituisce una sezione del Piano di prevenzione della Corruzione (PTPC);
    • pubblicazione del bilancio, preventivo e consuntivo, e del Piano degli indicatori e risultati attesi di bilancio, nonché dei dati concernenti il monitoraggio degli obiettivi (art. 29 D.Lgs. 33/13);
    • pubblicazione dei dati concernenti i beni immobili e la gestione del patrimonio (art. 30 D.Lgs. 33/13), i canoni di locazione vantati o percepiti, i costi contabilizzati dei servizi erogati, evidenziando quelli effettivamente sostenuti e quelli imputati al personale.

    Sono previste, ovviamente, sanzioni per l’inadempimento degli obblighi di pubblicazione, che vanno dalla responsabilità dirigenziale al risarcimento dei danni.

    Così come emerge da una semplice ricerca on-line, sono già numerosi i Consorzi di bonifica che sul territorio nazionale hanno tempestivamente adempiuto agli obblighi di cui sopra: ma quale è la situazione in Calabria? Ad oggi i Consorzi calabresi solo in poche occasioni (e spesso in modo del tutto parziale) hanno rispettato gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni previsti dal D.Lgs. 33/13: sovente la sezione “amministrazione trasparente” si rivela essere quale un semplice guscio vuoto del tutto privo – salvo poche eccezioni – dei contenuti di merito richiesti; si sottolinea l’assenza quasi totale della pubblicazione degli annuali bilanci consortili, fondamentale ed indispensabile strumento per la verifica della situazione patrimoniale e finanziaria dell’impresa. A ciò si deve aggiungere un contestuale inadempimento degli obblighi di cui alla L. 190/12 in materia di prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, con specifico riferimento all’adozione del Codice di comportamento e del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità nonché alla nomina del Responsabile della prevenzione della corruzione ex art. 1, co. 7, L. 190/12.

    Un contesto triste ma in lento movimento, certamente disomogeneo, con alcune realtà ben lontane anche dalla sola idea di prendere in considerazione gli obblighi in materia di trasparenza e anticorruzione, ed altre che – nonostante significativi passi avanti – sono ancora ben lungi dal pubblicare informazioni essenziali ed indispensabili non solo per rimanere entro i confini del lecito ma, ancor di più, per garantire un controllo diffuso e democratico delle proprie strutture e, in definitiva, dei propri costi.



  • La crisi ha colpito anche il reddito dei professionisti.
    Secondo i dati dell’Associazione delle Casse di Previdenza Private (Adepp), dal 2007 al 2014, ovvero nel periodo successivo alla crisi, il reddito medio degli iscritti è calato in termini reali del 18,35%.

    Allo stato attuale il compenso medio annuo dei professionisti che fanno parte dell’Adepp è di 28.960,02 euro annui, scendendo quindi sotto la quota dei 30.000 euro.
    ermellini3Secondo l’Adepp, la principale causa va ricercata nell’aumento dei prezzi. L’inflazione è cresciuta, infatti, più velocemente rispetto al reddito dei professionisti provocando così delle erosioni rilevanti dei redditi percepiti.
    L’Associazione delle Casse di Previdenza Private può contare su 1,5 milioni di iscritti, con un aumento del numero di aderenti del 20% negli ultimi dieci anni e del 3,52% nel confronto con l’anno precedente.
    I dati riportati, dunque, vanno considerati come uno specchio veritiero circa lo stato del mondo professionale in Italia.
    Anche in questo settore, inoltre, esiste una forma di discriminazione di genere, se analizziamo i redditi di uomini e donne.
    Come in quasi tutte le professioni, la componente femminile percepisce dei compensi nettamente inferiori rispetto a quella maschile. Si parla addirittura di un reddito dimezzato nel confronto tra uomini e donne: nella migliore delle ipotesi queste ultime riescono a guadagnare il 70% di quanto percepito dall’altro sesso.
    Capiamo benissimo, in via definitiva, come le disparità economiche siano troppo grandi per una società fondata sui principi di uguaglianza.



  • Sembra strano, ma è possibile usucapire, in modo del tutto legale, beni precedentemente ipotecati. La Cassazione, la quale si è espressa sul punto con la sentenza n. 8792/00, richiamando giurisprudenza decisamente risalente ha sostenuto che se un terzo possiede un immobile senza titolo trascritto “il compimento della usucapione estingue le iscrizioni ipotecarie iscritte o rinnovate al nome del precedente proprietario”, precisando che tale effetto deve farsi risalire non già ad una usucapione libertatis, ma alla efficacia retroattiva della usucapione.

    usucapioneSecondo la Corte se si ammettesse che l’alienazione compiuta dal proprietario in pendenza del termine per il maturarsi della usucapione è valida nei riguardi dell’usucapiente, bisognerebbe ammettere che, fatta prima che si sia compiuta l’usucapione, essa abbia l’effetto di paralizzarla, se non addirittura di eliminarla, anche se già compiuta. Si introdurrebbe così un nuovo modo di interrompere l’usucapione, che prescinderebbe completamente dal possesso dell’usucapiente, il quale potrebbe esserne del tutto ignaro.

    Ne consegue, quindi, che la sentenza che accerta l’usucapione prevale in ogni caso sui diritti reali di garanzia, anche se anteriormente trascritti rispetto alla prima. Giova ricordare che l’usucapione è un modo di acquisto della proprietà “a titolo originario”, ragion in tale ipotesi non trova applicazione il principio prior in tempore potior in iure: i terzi titolari del diritto di garanzia (ad esempio l’ipoteca) “subiscono” gli effetti della sentenza dichiarativa dell’usucapione ex art. 2909 c.c., secondo cui “L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”: l’unico rimedio per loro esperibile rimarrà quindi l’opposizione di terzo ex art. 404, co. 2 c.p.c., cercando di dimostrare che la sentenza dichiarativa dell’usucapione “è l’effetto di dolo o collusione”.

    Secondo la Cass. 2161/05, inoltre, “Il conflitto tra acquirente a titolo derivativo e acquirente per usucapione è sempre risolto a favore dell’usucapiente, indipendentemente dalla trascrizione della sentenza che accerta l’avvenuto acquisto a titolo originario e dall’anteriorità della trascrizione di essa o della relativa domanda rispetto alla trascrizione dell’acquisto a titolo derivativo”, perché il principio dettato dall’articolo 2644 del codice civile, con riferimento agli atti indicati nell’articolo 2643, non risolve il conflitto tra acquisto a titolo originario e acquisto a titolo derivativo, ma unicamente quello tra più acquisti a titolo derivativo dal medesimo dante causa.

    Si aggiunga infine che nell’ipotesi di opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., in cui il terzo può far valere la proprietà o altro diritto reale sul bene pignorato senza esigere che tali situazioni siano state giudizialmente accertate, “il termine ventennale utile a consolidare l’usucapione può maturare anche successivamente al pignoramento medesimo” (Cass. n. 12790/10).



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    La pubblicazione di immagini altrui su internet senza consenso costituisce una lesione del diritto all’immagine, diritto soggettivo e della personalità, segno distintivo di un individuo e diritto fondamentale della persona.

    diritto all'immagine Fino ad un po’ di anni fa la compromissione di tale diritto avveniva per lo più mediante la pubblicazione delle foto su giornali o riviste; oggi internet ha moltiplicato i rischi e reso sempre più frequenti comportamenti illegali in tale ambito. Il diritto all’immagine rientra tra i c.d. diritti inviolabili della personalità, ossia quei diritti che, al pari del diritto alla vita e all’integrità fisica, al nome, all’onore ecc., hanno ad oggetto aspetti essenziali della personalità umana. Sebbene il diritto all’immagine non sia esplicitamente incluso tra i diritti inviolabili della personalità dalla Carta Costituzionale del nostro Paese, la giurisprudenza ha unanimemente riscontrato il fondamento giuridico della tutela di tale diritto nell’art. 2 della Costituzione che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’individuo sia nella sfera individuale che in quella collettiva/sociale.

    Nell’ordinamento italiano il diritto all’immagine rappresenta una delle espressioni del diritto alla riservatezza, che garantisce ad ogni individuo uno spazio di riserbo relativamente a tutte quelle caratteristiche della propria personalità che non intende divulgare a terzi. Il diritto alla riservatezza, pertanto, esprime la legittima aspettativa di ciascun individuo di non essere oggetto di interferenze da parte di terze persone circa quelle caratteristiche personali, intime ed interiori che compongono la propria personalità. Il diritto alla riservatezza non comporta soltanto la pretesa – passiva – di evitare che terzi si intromettano nella sfera personale dell’individuo, ma anche quella – attiva – di gestire in piena autonomia la propria personalità aprendo gli spazi di intimità esclusivamente a determinati soggetti dallo stesso eventualmente individuati.

    Più specificatamente, come anticipato, l’ordinamento italiano prevede, nei limiti interpretativi ed estensivi sopra riportati, una specifica disciplina applicabile alle ipotesi di pubblicazione di immagini su internet: l’art. 96 della L. 633/41 (Diritti relativi al ritratto) stabilisce testualmente che “Il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, salve le disposizioni dell’articolo seguente”. E’ incontestabile che la pubblicazione su di un social media tanto famoso e diffuso come Facebook (avente 1,3 miliardi di utenti) possa costituire “il ritratto di una persona” di cui alla norma sopra citata, la quale potrà quindi trovare piena ed incondizionata applicazione al caso di specie. Tale norma introduce nel nostro ordinamento il c.d. “principio del consenso” stabilendo che per riprodurre, esporre o mettere in commercio l’immagine di una persona è sempre necessario ottenere il suo consenso.

    Ed ancora, una pubblicazione senza consenso viola certamente gli artt. 2043 e 2056 c.c., l’art. 10 c.c. (Abuso dell’immagine altrui), secondo cui “Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni”, e  l’art. 15 del D.Lgs. 196/03: “Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è  tenuto al risarcimento ai sensi dell’articolo 2050 del codice civile. 2. Il danno non patrimoniale è risarcibile anche in caso di violazione dell’articolo 11”. Il richiamo, nell’ultima norma citata, all’art. 2050 c.c., si spiega con l’intento del legislatore speciale di agevolare, sul piano probatorio, la posizione del danneggiato: invero, chi abbia subito il danno potrà limitarsi a dimostrare quest’ultimo, mentre sul presunto responsabile graverà la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitarlo, così come richiesto dall’art. 2050 cod. civ. (Cass. Civ., Sez. III, 2468/09).

    Non bisogna poi dimenticare, inoltre, che le fotografie pubblicate su internet possono contenere i c.d. “dati sensibili” di cui al D.Lgs. 196/03, il cui art. 4, lett. d), definiti come  “i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.

    Sul tema del risarcimento dei danni non patrimoniali derivanti dalla lesione del diritto d’immagine l’art. 10 cod. civ. è stato normalmente interpretato nel senso che la lesione del diritto all’immagine dà diritto anche al risarcimento dei danni non patrimoniali, soluzione confermata e rafforzata dal rilievo che, trattandosi di diritto costituzionalmente protetto (art. 2 Cost.), vale il principio più volte enunciato dalla Suprema Corte, secondo cui la relativa lesione non è soggetta al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 cod. pen., e non presuppone la qualificabilità del fatto come reato, giacché il rinvio di cui all’art. 2059 cod. civ.: “….ben può essere riferito……. anche alle previsioni della Legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica, implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale” (Cass. civ., Sez. III, 31 maggio 2003 n. 8828, fra le altre). Ed invero la Suprema Corte ha stabilito che “L’illecita pubblicazione dell’immagine altrui obbliga l’autore al risarcimento dei danni non patrimoniali sia ai sensi dell’ art. 10 cod. civ., sia ai sensi dell’art. 29 legge n. 675 n. 1996, – ove la fattispecie configuri anche violazione del diritto alla riservatezza, sia in virtù della protezione costituzionale dei diritti inviolabili della persona, di cui all’art. 2 Cost.: protezione costituzionale che di per sé integra fattispecie prevista dalla legge (al suo massimo livello di espressione) di risarcibilità dei danni non patrimoniali, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ.” (Cass. n. 12433/08).

    Qualora la pubblicazione senza consenso offenda l’altrui reputazione si potrà configurare, oltre all’illecito civile, anche il reato di diffamazione, mentre qualora dalla pubblicazione derivi un profitto anche il reato di trattamento illecito di danni.

     



  • Dopo anni di rinvii, il Parlamento sta discutendo il disegno di legge di Riforma del “Terzo settore”. La definizione nasce per distinguere un’area occupata da formazioni sociali (associazioni di volontariato, imprese sociali, fondazioni, Onlus, cooperative sociali, etc.) intermedie tra lo Stato (primo settore) ed il mercato (secondo settore), volte ad erogare beni e servizi di utilità sociale in assenza di lucro e con natura giuridica privata in numerosi settori, tra i quali l’assistenza sociale, la sanità, l’ambiente, il volontariato, la cultura, lo sport, la cooperazione internazionale. Un ambito che incide per ben il 3,4 % del Prodotto interno lordo con il 9,7 % degli addetti sul totale dell’economia.

    condivisioneIl DDL, per ora fermo in Commissione Affari Costituzionali del Senato e destinatario di circa cento emendamenti, prevede numerose novità, nonché nuove definizioni di Terzo settore (complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche e solidaristiche e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività d’interesse generale anche mediante la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale nonché attraverso forme di mutualità), e di Impresa sociale (impresa privata con finalità d’interesse generale, avente come proprio obiettivo primario la realizzazione di impatti sociali positivi conseguiti mediante la produzione o lo scambio di beni o servizi di utilità sociale, che destina i propri utili prevalentemente al raggiungimento di obiettivi sociali).

    Una profondo cambiamento rispetto alla vigente disciplina si ritrova in tema di remunerazione del capitale sociale e della ripartizione degli utili, laddove il ddl, superando quanto ad oggi disposto dall’art. 3 d.lgs. n. 155/2006 (è vietata  la  distribuzione,  anche  in forma indiretta,  di  utili  e  avanzi  di  gestione,  comunque denominati, nonche’   fondi   e   riserve  in  favore  di  amministratori,  soci, partecipanti,  lavoratori o collaboratori), riconosce la possibilità di una remunerazione, da assoggettare a condizioni e limiti massimi, differenziabili anche in base alla forma giuridica adottata dall’impresa, in analogia con quanto disposto per le cooperative a mutualità prevalente, che assicurino in ogni caso la prevalente destinazione degli utili al conseguimento degli obiettivi sociali. Ciò costituisce un significativo richiamo alle cooperative a mutualità prevalente, la cui disciplina prevede, quali requisiti essenziali, la  “prevalenza di bilancio” e la “prevalenza statutaria”; tale richiamo ha, almeno in parte, smorzato le numerose critiche indirizzate all’originario testo, in cui la pura deroga al principio generale di non lucratività, tipico del terzo settore, aveva certamente indebolito le finalità sociali proprie di tali imprese.

    Il disegno di legge prevede poi espressamente che le cooperative sociali e i loro consorzi acquisiscano di diritto la qualifica di imprese sociali, senza richiedere – quindi – il rispetto di specifici requisiti: è di tutta evidenza come tale riconoscimento di diritto costituisca una significativa testimonianza del valore e del primato della forma giuridica di cooperativa sociale, certamente ritenuta la più adatta al perseguimento degli alti fini sociali, civici e solidaristici perseguiti dal legislatore.



  • Una sentenza del Tar del Lazio obbliga gli ordini professionali a rispettare i principi di trasparenza, anticorruzione e incompatibilità degli incarichi, come stabilito dalla legge.
    La pronuncia del tribunale amministrativo arriva in seguito al ricorso presentato dal Consiglio nazionale degli avvocati e dagli ordini territoriali contro l’Autorità anti-corruzione che ha obbligato gli ordini ad uniformarsi alla normativa sull’anticorruzione e l’incompatibilità degli incarichi.

    Secondo il Tar, gli ordini sono degli enti pubblici non economici ed in quanto tali, quindi, devono presentare un piano triennale anti corruzione, non possono conferire incarichi dirigenziali a chi ha ricevuto delle condanne per reati contro la P.A.
    Saranno vietati, inoltre, i doppi incarichi per i dirigenti e sarà obbligatorio, infine, lagiustiziaèamministratanelnomedelpopolo1rendere pubblici lo stato patrimoniale dell’ordine, gli stipendi e gli incarichi assunti dai vertici dell’ordine stesso.
    La querelle tra il Consiglio nazionale forense e l’Anac è durata parecchi mesi, con anche alcuni esponenti politici di rilievo coinvolti nella diatriba. Basti pensare che l’avvocato difensore del Consiglio nazionale forense è stato l’ex Ministro di Grazia e Giustizia Giovanni Maria Flick.
    L’Autorità Anti corruzione ha fatto sapere che inizieranno subito i controlli all’interno degli ordini territoriali e chi non rispetta le delibere dell’Anac potrà ricevere una sanzione che va dai mille ai diecimila euro.
    Ovviamente tali obblighi non riguardano solamente gli ordini forensi, ma anche altre libere professioni, quali farmacisti, infermieri, medici, ecc. La levata di scudi attiene soprattutto al divieto di avere doppi incarichi, un norma che impedirebbe a tanti parlamentari di esercitare il doppio ruolo di deputato/senatore e di presidente del proprio ordine.
    La sentenza del Tar spazza via ogni dubbio e può essere considerata per certi aspetti rivoluzionaria, se consideriamo i tanti rappresentati degli ordini professionali presenti in Parlamento e gli obblighi di rendicontazione che questi ultimi saranno costretti a rispettare in quanto “enti pubblici non economici”.



  • Secondo l’art. 2545-terdecies c.c. (Insolvenza) le cooperative che svolgono attività commerciale sono soggette anche al fallimento. Si rende necessario quindi individuare quei criteri che permettono una puntuale identificazione e qualificazione delle cooperative che svolgono attività commerciale.

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    Sul punto ci viene in aiuto una recente decisione della Cassazione, la quale con la sentenza n. 6835/14 ha affermato che “con riguardo alla società cooperativa può dirsi che lo scopo di lucro non è elemento essenziale per il riconoscimento della qualità di imprenditore, essendo individuabile l’attività di impresa, tutte le volte che sussista una obiettiva economicità dell’attività esercitata, intesa quale proporzionalità tra costi e ricavi. Tale requisito può ben essere presente anche in una società cooperativa, che pure operi solo nei confronti dei propri soci; ed, in tal caso, essa si assoggetta allo statuto dell’impresa, che comprende il fallimento, quale strumento di soluzione e superamento dell’insolvenza che abbia origine in un’iniziativa imprenditoriale”.

    Nel caso di specie una società cooperativa per azioni aveva impugnato il provvedimento di dichiarazione di fallimento negando la propria qualità di imprenditore commerciale e, quindi, la non assoggettabilità all’art. 1 L.F. per avere essa finalità mutualistiche.

    Abbiamo già visto come lo scopo di mutualità, o scopo mutualistico, può avere diverse gradazioni o intensità, dalla mutualità pura, in tutte quelle ipotesi in cui la cooperativa non persegua assolutamente alcun fine di lucro, alla mutualità spuria, in cui, a seguito di una attenuazione dello scopo mutualistico (conciliato con una attività commerciale), la cooperativa interagisce anche con terzi non soci a cui cede bene e servizi. Ne deriva che lo scopo mutualistico di una società cooperativa non è inconciliabile con quello di lucro, quale obiettiva economicità della gestione, potendo i due fini coesistere ed essere rivolti al conseguimento di uno stesso risultato: pertanto, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2545-terdecies c.c. sopra citato per l’accertamento della sussistenza del fine predetto occorre avere riguardo alla struttura ed agli scopi di essa.

    Secondo la Suprema Corte  da un lato, l’impresa commerciale non postula il perseguimento di un lucro soggettivo e, dall’altro lato, la cooperativa che abbia fini mutualistici (anche a mutualità prevalente secondo la nozione introdotta dal D.Lgs. n. 6 del 2003) non è per ciò solo sottratta a fallimento.

    Ai fini della qualificazione di una impresa quale commerciale, ciò che rileva, accanto all’autonomia gestionale, finanziaria e contabile, è invero il perseguimento di un c.d. lucro oggettivo, ossia il rispetto del criterio di economicità della gestione, quale tendenziale proporzionalità di costi e ricavi, in quanto questi ultimi tendano a coprire i primi (almeno nel medio-lungo periodo). La nozione di imprenditore ai sensi dell’art. 2082 c.c. va quindi intesa in senso oggettivo, dovendosi riconoscere il carattere imprenditoriale all’attività economica organizzata che sia ricollegabile a un dato obiettivo inerente all’attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi, rimanendo giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, il quale riguarda il movente soggettivo che induce l’imprenditore ad esercitare la sua attività. L’attività commerciale, quindi, non è incompatibile con la finalità mutualistica.

    Nell’ipotesi esaminata la Cassazione, in applicazione concreta dei principi sopra enunciati, ha verificato la presenza di positivi indici della natura commerciale dell’attività svolta, quali la forma legale di s.p.a., l’esistenza di una partita i.v.a., l’oggetto sociale volto alla commercializzazione verso terzi di prodotti agricoli conferiti dai soci, dei quali la società incassa prezzo, ed infine l’esistenza di un rapporto di lavoro con un dipendente.



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    Abbiamo già visto che cosa sono le cooperative di comunità e qual è il loro scopo. Nel perdurare dell’assenza di una specifica legislazione nazionale, alcune realtà regionali hanno adottato una normativa ad hoc, spinte dalla necessità di governare un fenomeno sempre più diffuso sui propri territori, anche allo scopo di un riconoscimento finalizzato alla concessione di agevolazioni e/o finanziamenti regionali.

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    E’ il caso della Regione Puglia che, forte di diverse realtà d’eccellenza (ad esempio la cooperativa di comunità di Melpignano) ha approvato la L.R. 23/14, rubricata “Disciplina delle Cooperative di comunità”. Le legge definisce i criteri e i requisiti per il riconoscimento della qualifica di “cooperative di comunità” alle società cooperative che rispettino i requisiti stabiliti dal Codice civile, e che valorizzando le competenze della popolazione residente, delle tradizioni culturali e delle risorse territoriali, perseguono lo scopo di soddisfare i bisogni della comunità locale, migliorandone la qualità, sociale ed economica, della vita, attraverso lo sviluppo di attività economiche eco‐sostenibili finalizzate alla produzione di beni e servizi, al recupero di beni ambientali e monumentali, alla creazione di offerta di lavoro e alla generazione, in loco, di capitale sociale.

    A tal fine lo scopo mutualistico può essere il più vario (cooperative di produzione e lavoro, di utenza, di supporto, sociali o miste), con la peculiarità che i soci possono essere non solo persone fisiche o giuridiche, ma anche associazioni e fondazioni senza scopo di lucro che abbiano la residenza o la sede legale nella comunità di riferimento della cooperativa, nonché – ed ecco la rilevante novità – enti pubblici, a partire dagli enti locali in cui opera la cooperativa di comunità. Gli enti locali, in tal modo, potranno discostarsi dalla prassi in base alla quale si esternalizzano alcuni servizi socialmente rilevanti, per diventare veri e propri promotori di cooperative di comunità per lo svolgimento di compiti istituzionali.

    Vi è anche una definizione della comunità di riferimento, così come una stringente quantificazione percentuale del numero dei soci rispetto alla popolazione residente; è inoltre prevista l’istituzione di un Albo regionale delle cooperative di comunità per il riconoscimento della relativa qualifica, che consente di poter partecipare agli interventi economici regionali, ovvero finanziamenti agevolati, contributi in conto capitale e  contributi in conto occupazione.

    Infine un richiamo ad apposite convenzioni finalizzate a disciplinare i rapporti tra le cooperative di comunità e le stesse amministrazioni pubbliche operanti nell’ambito regionale, in modo da agevolare la partecipazione della cooperazione di comunità all’esercizio della funzione pubblica

     

     



  • Le cooperative di comunità sono delle società cooperative il cui scopo è costituito dalla produzione di vantaggi, ovvero beni o servizi, a favore una determinata comunità territoriale: gli esempi più recenti riportano di progetti su forestazione, agricoltura e zootecnia biologica, cura del verde e del territorio, turismo agreste, agriturismo, turismo scolastico e turismo di comunità, albergo diffuso, etc.

    Anche se in Italia non mancano casi di cooperative di comunità il cui settore d’attività è imperniato nei servizi pubblici locali, quali ad esempio nei settori dell’energia elettrica, idrico o della gestione dei rifiuti, non vi è dubbio che oggi giorno il concetto di cooperativa di comunità viene associato per lo più a cooperative, spesso create da giovani, nate per rinvigorire piccoli borghi, portando ad una conseguente crescita del territorio in termini sociali ed economici.

    cooperative comunitàE’ fuori di dubbio che la forma giuridica della cooperativa ben si adatti, forse anche meglio di altre, a rispondere anche da un punto di vista imprenditoriale alle nuove esigenze che la globalizzazione dei mercati, l’abbandono e lo spopolamento dei centri storici rurali, ed il modello di sviluppo capitalistico hanno creato; si favorisce così il ritorno ad una visione più “umana” anche dei rapporti economici e sociali, creando (o, forse, sarebbe meglio dire “ritornando”) ad un modello sociale in cui le tradizioni e le produzioni tipiche, la storia, l’ambiente, ed infine il rapporto personale in cui il cittadino non è considerato freddamente solo un “cliente”, sono al centro del progetto.

    La costituzione di una cooperativa di comunità, da un punto di vista formale e giuridico, non diverge dalla costituzione di una qualsiasi cooperativa, in quanto l’unica differenza sarà costituita dall’oggetto dello scambio mutualistico, in questo caso costituito da un servizio rivolto agli appartenenti ad una determinata comunità.

    Grazie al contributo dei cittadini/soci, è possibile quindi costituire una società cooperativa, per definizione “a gestione democratica”, che sarà altamente capace di adattarsi alle esigenze, peculiarità e problematiche del territorio in cui opera, valorizzandone al meglio le potenzialità, dando risposte alle esigenze agli abitanti, creando contestualmente nuove occasioni di lavoro ed evitando lo spopolamento di aree ricche di storia e cultura, ma ancor più di “rapporti sociali diretti”, a volte così latitanti nelle grandi città.

    Dove lo Stato non arriva, o non può arrivare, dove l’imprenditoria privata non vede un interesse economico secondo modelli imprenditoriali basati esclusivamente sul profitto, potrà nascere (e gli esempi, nel nostro paese, non mancano) una cooperativa di comunità, in grado di erogare beni e servizi utili e necessari ai cittadini e, contemporaneamente, di garantire nuovi posti di lavoro. Più dello Stato, più dell’imprenditoria privata.