Categoria: Legale


  • Ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applica la legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori), ma con la significativa esclusione del solo articolo 18 (tutela reale e, quindi, diritto alla reintegra in caso di licenziamento illegittimo) ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo.

    Tale prescrizione è prevista dall’art. 2 della l. 142/01, disciplinante le cooperative di lavoro, volto a garantire ai soci lavoratori una parità di diritti rispetto ai lavoratori propriamente subordinati, o comunque un complesso di tutele minime ed inderogabili, ma con la contestuale previsione di un rapporto di consequenzialità fra l’esclusione del socio ed il recesso, incidendo la delibera di esclusione pure sul concorrente rapporto di lavoro.

    art.18Secondo l’intendo del legislatore, l’esclusione della tutela reale opera in ogni caso in cui insieme al rapporto di lavoro venga a cessare anche il rapporto associativo, al fine di evitare per le società cooperative, considerata l’evidente rilevanza dell’intuitus personae, la possibilità di reintegrazione del socio lavoratore e quindi di ricostituzione in via autoritativa del rapporto societario.

    Tale principio, nella sua eccezione, è stato di recente ribadito dalla Cassazione con la sentenza n. 11548/15, con la quale la Suprema Corte ha stabilito il diritto alla reintegra di un socio-lavoratore, con conseguente applicabilità dell’art. 18 Stat. Lav., in quanto nell’ipotesi all’attenzione degli ermellini la delibera di esclusione del socio era già stata dichiarata nulla dal giudice di secondo grado e non impugnata davanti al giudice delle leggi. In assenza di un legittimo provvedimento di esclusione del socio (l’annullamento del recesso era oramai passato in giudicato), ha quindi trovato spazio l’ipotesi altrimenti residuale di cui all’art. 18 Stat. Lav.



  • Le cooperative possono essere distinte in cooperative a mutualità prevalente e cooperative a mutualità non prevalente o cooperative diverse, con significativi vantaggi fiscali per queste ultime garantiti dallo Stato in virtù della loro funzione sociale costituzionalmente riconosciuta.

    bilancioVi sono, inoltre, delle ipotesi in cui alcune tipologie di cooperative sono considerate dalla legge “prevalenti di diritto”, indipendentemente dal raggiungimento dei rigidi requisiti di bilancio di cui all’art. 2513.
    La condizione di prevalenza, però, non è una qualifica immutabile, ma può essere persa in due distinte ipotesi, espressamente previste dall’art. 2545-octies c.c.:

    1. la mancata osservazione, per almeno due bilanci consecutivi, delle condizioni previste dall’art. 2513 c.c., ovvero dei criteri legali prestabiliti per definire la “prevalenza” da un punto di vista economico;
    2. la modificazione delle clausole statutarie previste dall’art. 2514 c.c., ovvero di quei rigidi requisiti statutari imposti al fine di garantire l’effettività della c.d. prevalenza.

    Al verificarsi delle condizioni di cui alla prima delle due ipotesi sopra indicate, la cooperativa dovrà solamente segnalare espressamente tale condizione attraverso gli strumenti di comunicazione informatica previsti dall’articolo 223 sexiesdecies disp. att. c.c., dovendo redigere un bilancio straordinario unicamente se ha già emesso strumenti finanziari.

    Nella seconda ipotesi, invece, “sentito il parere del revisore esterno, ove presente, gli amministratori devono redigere un apposito bilancio”, che poi dovrà essere verificato senza rilievi da una società di revisione. Successivamente, e comunque entro e non oltre 60 giorni, il bilancio straordinario dovrà essere notificato al Ministero delle attività produttive (ora Ministero dello Sviluppo Economico) “… al fine di determinare il valore effettivo dell’attivo patrimoniale da imputare alle riserve indivisibili”.

    A seguito della comunicazione informatica sopra citata (art. 2545-octies, c. 4, c.c.) la cooperativa verrà cancellata dalla apposita sezione dell’Albo delle società cooperative ed iscritta in quella riservata alle cooperative a mutualità non prevalente: anche in questo caso gli utili non potranno essere interamente distribuiti, in quanto il limite previsto dal primo comma dell’art. 2545-quinquies c.c. è applicabile a tutte le tipologie di cooperative.

    Successivamente alla perdita della prevalenza, qualora la cooperativa rispetti nuovamente i requisiti contabili di cui all’art. 2513 c.c., si renderà necessaria una nuova comunicazione per il rientro nelle condizioni agevolate.


  • cosa sono le cooperative a mutualità prevalente

    Abbiamo già visto quali siano i requisiti, soggettivi ed oggettivi, affinché una cooperativa possa essere considerata a mutualità prevalente, e godere quindi delle agevolazioni fiscali previste dalla legge. Vi sono, però, delle ipotesi in cui il legislatore ha inteso considerare alcune tipologie di cooperative “prevalenti di diritto”, in ragione di alcune loro peculiarità o della loro funzione sociale particolarmente rilevante, indipendentemente – quindi – dal raggiungimento dei rigidi requisiti di bilancio di cui all’art. 2513. Di seguito alcuni esempi.

    • Secondo l’art. 111-septies disp. att. cod. civ. le cooperative sociali (sia di “tipo A” che di “tipo B”) che rispettino le norme di cui alla l. 381/91 sono considerate, indipendentemente dai requisiti di cui all’articolo 2513 del codice, cooperative a mutualità prevalente. Rimane fermo, però, l’obbligo di inserire nei rispettivi statuti le clausole di prevalenza “soggettiva” di cui all’art. 2514 c.c.
    • Secondo l’art. 223-terdecies disp. att. cod. civ. le banche di credito cooperativo che rispettino le norme delle leggi speciali sono considerate cooperative a mutualità prevalente.
    • In applicazione dell’art. 111-undecies disp. att. cod. civ. il Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, ha stabilito con il D.M. 30 dicembre 2005 i regimi derogatori al requisito della prevalenza di cui all’art. 2513 c.c., tenuto conto della struttura delle imprese e del mercato in cui le cooperative operano, delle specifiche disposizioni normative cui le cooperative devono uniformarsi e della circostanza che la realizzazione del bene destinato allo scambio mutualistico richieda il decorso di un periodo di tempo superiore all’anno di esercizio:
    • Cooperative di lavoro. Nelle cooperative di lavoro e nelle cooperative miste non si computa, ai fini del calcolo di prevalenza di cui all’art. 2513 del codice civile, il costo del lavoro delle unità lavorative non socie assunte in forza di obbligo di legge o di contratto collettivo nazionale di lavoro o di convenzione con la pubblica amministrazione, nè il costo del lavoro delle unità lavorative che per espressa disposizione di legge non possono acquisire la qualità di socio della cooperativa.
    • Cooperative per la produzione e la distribuzione di energia elettrica. Nelle cooperative per la produzione e la distribuzione di energia elettrica non si computano tra i ricavi i corrispettivi derivanti dalla prestazione del servizio di fornitura di energia in base a rapporti obbligatori imposti.
    • Cooperative agricole di allevamento e di conduzione. Nelle cooperative di allevamento la condizione di prevalenza è rispettata quando dai terreni dei soci e delle cooperative sono ottenibili almeno un quarto dei mangimi necessari per l’allevamento stesso. Nelle cooperative agricole per la conduzione associata di terreni, la condizione di prevalenza è rispettata quando l’estensione dei terreni coltivati dai soci supera il 50% dell’estensione totale dei terreni condotti dalla cooperativa.
    • Enti di formazione. Negli enti di formazione costituiti in forma cooperativa non si computano, ai fini del calcolo del requisito della prevalenza mutualistica di cui all’art. 2513 del codice civile, i finanziamenti erogati da pubbliche amministrazioni per lo svolgimento di attività di formazione in favore di utenti terzi.
    • Cooperative per il commercio equo e solidale. Sono considerate a mutualità prevalente indipendentemente dall’effettivo possesso dei requisiti di cui all’art. 2513 del codice civile, le cooperative che operano prevalentemente nei settori di particolare rilevanza sociale, quali le attività di commercio equo e solidale. Per attività di commercio equo e solidale si intende la vendita, effettuata anche con l’impiego di attività volontaria dei soci della cooperativa, di prodotti che le cooperative o loro consorzi acquistano direttamente da imprese di Stati in via di sviluppo o da cooperative sociali di tipo b) ai sensi della legge 8 novembre 1991, n. 381, con garanzia di pagamento di un prezzo minimo indipendentemente dalle normali fluttuazioni delle condizioni di mercato.
    • Società finanziarie. Le società finanziarie, costituite in forma cooperativa ai sensi della legge 27 febbraio 1985, n. 49, e successive modificazioni ed integrazioni, sono considerate cooperative a mutualità prevalente qualora rispettino i requisiti di cui all’art. 2514 del codice civile.
    • Cooperative giornalistiche. Nelle cooperative giornalistiche di cui alla legge 5 agosto 1981, n. 416, non si computa il costo del lavoro dei soggetti con i quali la cooperativa instaura, nei limiti e alle condizioni previste da disposizioni di legge, rapporti di lavoro occasionale.
    • Cooperative di consumo operanti nei territori montani.
    • Calamità naturali. Nei casi in cui la cooperativa perda la condizione di prevalenza di cui all’art. 2513 del codice civile a causa di calamità naturali o avversità atmosferiche di carattere eccezionale, dichiarate dalle autorità competenti, che abbiano provocato danni alle culture, alle infrastrutture e agli impianti produttivi, il periodo relativo ai due esercizi previsto dal comma 1 dell’art. 2545-octies inizia a decorrere dal venir meno degli effetti degli eventi medesimi.
    • Soci di enti giuridici. Ai fini del calcolo della prevalenza di cui all’art. 2513, comma 1, lettera a), tra le cessioni di beni e prestazioni di servizi verso soci sono ricomprese quelle effettuate nei confronti di persone fisiche socie di enti giuridici aventi la qualità di soci della cooperativa.
    • Cooperative di editori che gestiscono agenzie giornalistiche.


  • Il reato di guida in stato di ebbrezza può essere commesso anche da chi conduce una bicicletta. E’ questo il principio sancito dalla Cassazione, Sezione Penale, con la sentenza n. 4893 del 2 febbraio 2015.

    bici alcool

    Nel caso di specie il ricorrente aveva censurato la sentenza resa dalla Corte d’Appello di Brescia sostenendo che la corte territoriale aveva erroneamente applicato la disciplina sanzionatoria riferita al reato di guida in stato di ebbrezza anche all’uso della bicicletta, veicolo non motorizzato.

    Sul punto i giudici della Suprema Corte, richiamando costanti precedenti giurisprudenziali, hanno invece affermato che “il reato di guida in stato di ebbrezza ben può essere commesso attraverso la conduzione di una bicicletta, a tal fine rivestendo un ruolo decisivo la concreta idoneità del mezzo usato a interferire sulle generali condizioni di regolarità e di sicurezza della circolazione stradale”.

    L’inapplicabilità al caso di specie delle sanzioni amministrative accessorie come quella della sospensione della patente di guida, poichè il reato è stato commesso conducendo un veicolo – la bicicletta – per la cui guida non è richiesta alcuna abilitazione (cfr. Cass. sez. pen. n. 19413/13), non è quindi rilevante ai fini della configurabilità del reato di guida in stato di ebbrezza. La Corte ha quindi concluso sostenendo “l’oggettiva idoneità (tanto astratta, quanto in concreto), della conduzione di una bicicletta in condizioni di ebbrezza alcolica, a interferire con il regolare e sicuro andamento della circolazione stradale, con la conseguente creazione di un obiettivo e concreto pericolo per la sicurezza e l’integrità del pubblico degli utenti della strada”, con conseguente rigetto del ricorso.



  • Nel caso in cui l’atto di citazione debba essere notificato a più convenuti, il termine di dieci giorni concesso all’attore dall’art. 165 c.p.c. (e all’appellante dall’art. 347 c.p.c.) per la sua costituzione in giudizio decorre dalla prima notificazione, e non dall’ultima.

    avviso di ricevimento

    E’ questo il principio sancito dalle Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 10864/11, con la quale i giudici della nomofilachia hanno risolto un precedente contrasto giurisprudenziale che vedeva contrapposte due opposte correnti: la prima riteneva che il termine per la costituzione dell’attore dovesse decorrere dall’ultima delle notifiche dell’atto di citazione, la seconda (a partire dal 1997), aderendo ad una tesi più restrittiva, secondo cui il termine per la costituzione dell’attore decorre dalla prima delle notificazioni dell’atto di citazione.

    La prassi, com’è noto, consente all’attore di costituirsi depositando la c.d. velina, ovvero una copia informale e non autentica dell’atto di citazione, proprio perché a causa dei tempi di notifica di competenza esclusiva dei ufficiali giudiziari l’attore non può conoscere la data della effettiva notifica, almeno fino a quando l’atto non gli sia restituito, rischiando di veder spirato il termine di costituzione.

    Le S.U., invero, ricordano come l’art. 165 cod. proc. civ., comma 2, stabilisce che, in caso di notificazione della citazione a più soggetti, l’originale deve essere inserito nel fascicolo entro dieci giorni dall’ultima notificazione, affermando che “Se fosse consentita la costituzione dell’attore o dell’appellante, entro dieci giorni dall’ultima notificazione, tale previsione sarebbe superflua, poichè l’inserimento della citazione in originale, previsto dal comma 2, presuppone necessariamente che il fascicolo di parte dell’attore, nel quale l’atto va inserito, sia già stato depositato e che, pertanto, la costituzione dell’attore debba essere già avvenuta”. Da ciò discende per il convenuto il diritto di conoscere, quanto prima possibile, se l’attore si sia costituito o meno, al fine di stabilire le opportune strategie difensive, sul presupposto che, nella prassi, la mancata tempestiva costituzione dell’attore è sintomo della volontà di non dare più seguito all’esercizio dell’azione; tale verifica sarebbe impossibile aderendo alla tesi “liberale”, in quanto il convenuto cui la citazione è stata notificata per prima non saprebbe quando sia avvenuta od avverrà l’ultima notificazione.



  • Secondo la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è conforme al diritto comunitario la normativa nazionale che consente al datore di lavoro di disporre unilateralmente la trasformazione del contratto di lavoro da full time a part time, anche senza il consenso del lavoratore (sentenza C-221/13 del 15.10.2014).

    part-time-parigi

    Nel caso di specie il Tribunale di Trento ha sottoposto alla Corte di Giustizia il presunto contrasto tra la clausola 5, punto 2[1], dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, concluso il 6 giugno 1997, che figura nell’allegato alla direttiva 97/81/CE del Consiglio relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES (la quale, tenuto conto del divieto di licenziamento in essa sancito, richiederebbe il consenso del lavoratore quando la modifica del contratto di lavoro sia voluta dal datore di lavoro), e l’articolo 16 della legge nazionale n. 183/10, il quale prevedeva per le amministrazioni pubbliche la possibilità, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della stessa legge, di sottoporre a nuova valutazione i provvedimenti di concessione della trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale già adottati, a seguito del quale alla ricorrente era stata imposta la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale (orario distribuito su tre giorni settimanali) a tempo pieno (orario su sei giorni).

    La doglianza era basata sulla lamentata impossibilità di destinare il proprio tempo libero alla famiglia e alla propria formazione professionale, sostenendo che la direttiva 97/81 sancisce un principio secondo il quale il lavoratore non può vedere trasformato il suo contratto di lavoro da contratto a tempo parziale in contratto a tempo pieno contro la propria volontà e che, di conseguenza, l’articolo 16 della legge n. 183/2010 confliggeva con detta direttiva.

    Nella sentenza in esame la Corte, preliminarmente, ricorda come la direttiva 97/81 e l’accordo quadro siano diretti, da un lato, a promuovere il lavoro a tempo parziale e, dall’altro, a eliminare le discriminazioni tra i lavoratori a tempo parziale e i lavoratori a tempo pieno.

    In tale prospettiva, il considerando 14 della direttiva 97/81 enuncia che l’accordo quadro vincola gli Stati membri per quanto riguarda il risultato da raggiungere, ma lascia alle autorità nazionali la scelta della forma e dei mezzi. Risulta, inoltre, dal secondo comma del preambolo dell’accordo quadro che quest’ultimo enuncia principi generali e prescrizioni minime relative al lavoro a tempo parziale. Secondo il considerando 6 dell’accordo quadro, tale accordo rimette agli Stati membri e alle parti sociali la definizione delle modalità di applicazione di tali principi generali, prescrizioni minime e disposizioni, al fine di tener conto della situazione in ogni Stato membro.

    Più nello specifico, analizzando la clausola 5, punto 2, la Corte sostiene che “Da tale clausola si evince che la stessa non impone agli Stati membri di adottare una normativa che subordini al consenso del lavoratore la trasformazione del suo contratto di lavoro da contratto a tempo parziale in contratto a tempo pieno. Infatti, detta disposizione è volta unicamente ad escludere che l’opposizione di un lavoratore a una simile trasformazione del proprio contratto di lavoro possa costituire l’unico motivo del suo licenziamento, in assenza di altre ragioni obiettive”, con la conseguenza che “la clausola 5, punto 2, dell’accordo quadro non osta a una normativa che consente al datore di lavoro di disporre, per ragioni di tal tipo, la trasformazione del contratto di lavoro da contratto a tempo parziale in contratto a tempo pieno senza il consenso del lavoratore interessato”.

    Secondo i giudici comunitari una situazione in cui un contratto di lavoro a tempo parziale è trasformato in un contratto di lavoro a tempo pieno senza l’accordo del lavoratore interessato e una situazione in cui un lavoratore vede il suo contratto di lavoro a tempo pieno trasformato in un contratto di lavoro a tempo parziale contro la sua volontà “non possono essere considerate situazioni comparabili, dato che la riduzione del tempo di lavoro non comporta le stesse conseguenze del suo aumento, in particolare a livello di remunerazione del lavoratore, che rappresenta la contropartita della prestazione di lavoro”.

    [1] «Il rifiuto di un lavoratore di essere trasferito da un lavoro a tempo pieno ad uno a tempo parziale, o viceversa, non dovrebbe, in quanto tale, costituire motivo valido per il licenziamento, senza pregiudizio per la possibilità di procedere, conformemente alle leggi, ai contratti collettivi e alle prassi nazionali, a licenziamenti per altre ragioni, come quelle che possono risultare da necessità di funzionamento dello stabilimento considerato».



  • A seguito della riforma del diritto societario del 2003 le cooperative possono essere distinte in cooperative a mutualità prevalente e cooperative a mutualità non prevalente o cooperative diverse.

    In virtù del riconoscimento, ad opera dell’art. 45 Cost., della loro funzione sociale, tesa allo stabilimento di equi rapporti sociali e alla rimozione delle strutture monopolistiche, ai sensi dell’art. 223-duodeces delle disp. att. c.c. “Le disposizioni fiscali di carattere agevolativo previste dalle leggi speciali si applicano soltanto alle cooperative a mutualità prevalente”.

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    I loro requisiti essenziali, puntualmente disciplinati dal codice civile, sono la “prevalenza di bilancio” e la “prevalenza statutaria”. Per quanto attiene la prima, secondo l’art. 2512 sono società cooperative a mutualità prevalente quelle che:

    1) svolgono la loro attività prevalentemente in favore dei soci, consumatori o utenti di beni o servizi;

    2) si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, delle prestazioni lavorative dei soci;

    3) si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, degli apporti di beni o servizi da parte dei soci.

    Il successivo art. 2513 c.c. fornisce i criteri per la definizione della prevalenza di bilancio, attraverso dei rigorosi parametri utili a calcolare e verificare il rispetto della prevalenza, ad esempio  prevedendo che i ricavi dalle vendite dei beni e dalle prestazioni di servizi verso i soci debbono essere superiori al cinquanta per cento del totale dei ricavi delle vendite e delle prestazioni ai sensi dell’articolo 2425, primo comma, punto A1; tale condizione deve essere rigorosamente documentata dagli amministratori (redattori del bilancio di esercizio) e dai sindaci nella nota integrativa al bilancio. Nella nota integrativa sarà opportuno quindi specificare i vari tipi di rapporti intrattenuti con soci e “non soci”. Ne deriva che le cooperative che non svolgono la loro attività prevalentemente con i soci saranno qualificabili come cooperative a mutualità non prevalente.

    Per quanto attiene la “prevalenza statutaria”, le cooperative a mutualità prevalente devono prevedere nei propri statuti alcuni specifici requisiti, indicati nell’art. 2514 c.c., volti a prevedere la c.d. non lucratività:

    1. a) il divieto di distribuire i dividendi in misura superiore all’interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato;
    2. b) il divieto di remunerare gli strumenti finanziari offerti in sottoscrizione ai soci cooperatori in misura superiore a due punti rispetto al limite massimo previsto per i dividendi;
    3. c) il divieto di distribuire le riserve fra i soci cooperatori;
    4. d) l’obbligo di devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell’intero patrimonio sociale, dedotto soltanto il capitale sociale e i dividendi eventualmente maturati, ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione.

    In questi casi si parla di prevalenza soggettiva poiché, per come disposto dall’ultimo comma dell’art. 2514 c.c. “Le cooperative deliberano l’introduzione e la soppressione delle clausole di cui al comma precedente con le maggioranze previste per l’assemblea straordinaria”; l’introduzione (reversibile) nello statuto di queste quattro ultime clausole è lasciata alla discrezionalità di ciascuna cooperativa.

    Le cooperative a mutualità prevalente, infine, debbono essere iscritte nell’apposita sezione dell’Albo Nazionale delle Società Cooperative istituito presso il Ministero dello Sviluppo Economico.



  • Le dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva fanno fede in giudizio fino a prova contraria, e ove le stesse siano univoche, il giudice può ritenerle sufficienti ad escludere la prova testimoniale diretta alla loro conferma.

    Ispettori-del-Lavoro

    Secondo la Cassazione (sentenza n. 10427/14), infatti, “ove le dichiarazioni dei lavoratori siano univoche, il giudice può ben ritenere superflua l’escussione dei lavoratori in giudizio mediante prova testimoniale, tanto più se il datore di lavoro non alleghi e dimostri eventuali contraddizioni delle dichiarazioni rese agli ispettori in grado di inficiarne l’attendibilità”.

    E’ noto che l’art. 10 del D.lgs. 124/04 stabilisce che “I verbali di accertamento redatti dal personale ispettivo sono fonti  di  prova  ai sensi della normativa vigente relativamente agli elementi di fatto acquisiti e documentati”: sul punto la giurisprudenza ha stabilito diverse gradazioni della loro efficacia probatoria in base al presupposto di fatto indicato.

    Ed invero è pacifico che il verbale ispettivo, atto pubblico ex art. 2699 c.c., gode dell’efficacia probatoria privilegiata prevista dall’art. 2700 c.c., e quindi “fa piena prova, fino a querela di falso della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”. Diversa, invece, è l’efficacia probatoria garantita al contenuto delle dichiarazioni raccolte dell’ispettore: in tale ipotesi, secondo la sentenza in esame, “il materiale probatorio è liberamente valutabile e apprezzabile dal giudice, il quale può anche considerarlo prova sufficiente delle circostanze riferite al pubblico ufficiale, qualora il loro specifico contenuto probatorio o il concorso d’altri elementi renda superfluo l’espletamento di ulteriori mezzi istruttori”.

    Le dichiarazioni rese dai lavoratori in una fase, quella ispettiva, antecedente al giudizio, pur se prive di efficacia probatoria privilegiata, vengono quindi considerate dalla Cassazione meritevoli di pregio e rilevanza processuale, soprattutto in quelle ipotesi in cui il datore di lavoro non abbia pienamente adempiuto al proprio onere di prova contraria.



  • Il testo sul falso in bilancio ha finalmente preso vita ed è pronto ad arrivare in Parlamento.
    Sono ancora incerti i tempi e le modalità di approvazione. Con ogni probabilità il testo dovrebbe arrivare questa settimana in Commissione Giustizia al Senato prima di approdare alle Camere nei prossimi sette giorni.

    orlandoLa novità principale riguarda l’esclusione delle soglie patrimoniali o percentuali al di sotto delle quali il reato di falso in bilancio rimane impunito. Allo stato attuale la fattispecie non è punibile se le elusioni sono inferiori al 5% del risultato d’esercizio e all’1% del patrimonio netto.
    Il Governo elimina definitivamente tali soglie, per cui il reato di falso in bilancio è sanzionabile a prescindere dall’entità della somma elusa.
    L’esecutivo, però, istituisce una distinzione non di poco conto tra società quotate in borsa e non.
    Per quanto riguarda le prime la pena rimane da 3 a 8 anni e sarà perseguibile anche d’ufficio.
    Quando, invece, la società non è troppo grande e non è quotata in borsa, spetterà al giudice valutare se procedere o meno. Un’eventuale condanna, infatti, anche per falsi in bilancio di lieve entità potrebbe portare l’azienda al fallimento, per questo motivo verrà lasciato ampio margine discrezionale al giudice.
    La pena per questa fattispecie viene ridotta e va da 1 a 5 anni.

    Proprio quest’ultimo punto è quello più problematico e si scontra con il parere delle opposizioni in Parlamento.
    La previsione di una pena massima di 5 anni impedisce di fatto che il reato sia sottoposto ad intercettazioni.
    Il codice penale, infatti, prevede l’utilizzo delle intercettazioni telefoniche solo per quelle fattispecie la cui sanzione è superiore a 5 anni.
    Vengono, dunque, depenalizzati alcuni tipi falsi in bilancio, lasciando un importante potere di scelta alle autorità giudiziarie.
    Il criterio delle società quotate in borsa è sicuramente rilevante, ma forse non sufficiente per stabilire la gravità del reato.
    Per adesso sembra che la norma in questione che scontenti molti attori.
    Innanzitutto Confindustria, che si è sempre battuta per il mantenimento delle soglie di non punibilità e che reputa troppo ampio il potere di discrezionalità in capo ai giudici.
    Ma anche il Movimento 5 Stelle ed una parte della minoranza Pd condanna l’abbassamento delle pene e l’impossibilità di utilizzare lo strumento delle intercettazioni.
    Resta comunque un cambiamento normativo non di poco conto. Vedremo se nei prossimi giorni ci saranno ulteriori modifiche nel corso dei passaggi parlamentari.
    Dovrà attendere ancora, invece, il ddl anti corruzione, il cui emendamento sul falso in bilancio è strettamente collegato. Si discute ancora all’interno della maggioranza sugli strumenti per combattere i reati contro la Pubblica Amministrazione e le relative sanzioni.
    Secondo quanto filtra da Palazzo Chigi, sembra che il Governo sia intenzionato ad aumentare i termini di prescrizione proprio per le fattispecie di reato contro le P.A.
    Nei prossimi giorni dovrebbe essere elaborato il testo completo che rappresenta senza dubbio uno snodo fondamentale dell’azione governativa.



  • Come tutelarsi nel caso di infiltrazioni in uno stabile condominiale? Il singolo condomino potrà optare tra due soluzioni al fine di ottenere il giusto risarcimento dei danni: citare in giudizio il condominio, nella persona del suo amministratore, oppure avvalersi – qualora siano presenti tutti i presupposti di legge – del disposto di cui all’art. 1669 c.c. e chiedere il ristoro dei danni direttamente al costruttore dell’edificio.
    condominio_infiltrazioni
    Per il condomino sarà molto più semplice servirsi della prima soluzione, ma la responsabilità extracontrattuale per “Rovina e difetti di cose immobili” potrà essere eccepita anche dallo stesso condominio, avvalendosi della chiamata in giudizio del costruttore. E’ oramai consolidato principio giurisprudenziale l’inclusione tra i “gravi difetti” di cui all’art. 1669 c.c. delle infiltrazioni d’acqua provenienti dalle parti comuni dell’edificio, tali da incidere sulla funzionalità dell’opera menomandone il godimento.
    Secondo la Cassazione il breve termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione di un immobile, previsto dall’art. 1669 c.c. a pena di decadenza dall’azione di responsabilità contro l’appaltatore, decorre dal giorno in cui il committente consegue un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dall’imperfetta esecuzione dell’opera: non sono sufficienti, viceversa, manifestazioni di scarsa rilevanza e semplici sospetti, né la richiesta in assemblea di nomina di un perito tecnico; tale conoscenza deve ritenersi, di regola, acquisita, in assenza di anteriori ed esaustivi elementi, solo all’atto dell’acquisizione di relazioni peritali effettuate.
    La giurisprudenza di legittimità ha quindi ritenuto tempestiva esclusivamente la denunzia successiva ad una consulenza tecnica che accerti il vizio. Tale principio, ormai pacifico, è stato di recente ribadito dalla Cassazione con la sentenza n. 20644/13, nella quale si è affermato che «non potendosi onerare il danneggiato di proporre senza la dovuta prudenza azioni generiche a carattere esplorativo o comunque suscettibili di rivelarsi infondate, la conoscenza completa, idonea a determinare il decorso del doppio termine, dovrà ritenersi conseguita, in assenza di convincenti elementi contrari anteriori da dedursi e provarsi dall’appaltatore, solo all’atto dell’acquisizione di idonei accertamenti tecnici», tali da determinare una piena comprensione della corretta imputazione delle cause dei fenomeni dannosi.



  • Cosa accade nel momento in cui un atto processuale non è notificato personalmente dall’Ufficiale Giudiziario ma “a mezzo posta”, e l’avviso di ricevimento non risulta correttamente sottoscritto o – addirittura – è privo di alcuna sottoscrizione? Secondo la Cassazione la notifica è comunque efficace.
    notifica_posta
    La notifica a mezzo del servizio postale è disciplinata dall’art. 149 c.p.c. e dalla l. 890/82: in questi casi l’Ufficiale Giudiziario scrive la relazione di notificazione sull’originale e sulla copia dell’atto, facendovi menzione dell’Ufficio postale per mezzo del quale spedisce la copia al destinatario in piego raccomandato con avviso di ricevimento, il quale è poi spedito all’indirizzo predisposto dall’Ufficiale. L’avviso di ricevimento «costituisce prova dell’eseguita notificazione».
    Secondo la Suprema Corte «l’avviso di ricevimento, che è parte integrante della relata di notifica, riveste natura di atto pubblico», e in quanto gode della fede privilegiata prevista dall’art. 2700 c.c. , di modo che per quanto attiene alla “forza certificatoria” la notificazione effettuata dall’agente postale è equiparata in tutto e per tutto a quella posta in essere dall’Ufficiale Giudiziario, sino – ovviamente – a querela di falso.
    La giurisprudenza ha addirittura ritenuto del tutto valida la notifica di un atto in cui fosse del tutto illeggibile la firma del destinatario, senza nemmeno l’indicazione della qualità del consegnatario e senza che fosse barrata la relativa casella tra quelle predisposte dal modello di avviso di ricevimento: in questi casi «deve ritenersi che la sottoscrizione illeggibile, apposta nello spazio riservato alla firma del ricevente, sia stata vergata dallo stesso destinatario» .



  • L’amministratore di condominio può partecipare alla mediazione soltanto se espressamente autorizzato dall’assemblea dei condomini.

    stretta di mano
    E’ questa la soluzione adottata dalle più recenti disposizioni di legge; vediamo perché: con il d.l. 69/13 è stata reintrodotta l’obbligatorietà della media conciliazione, ma solo per determinate materie. Tra queste certamente rilevante è quella condominiale, dato che il contenzioso che ne deriva affolla gran parte dei tribunali italiani. Ricordiamo che l’istituto in esame è previsto espressamente a pena di improcedibilità: in altre parole, ogni qual volta il condominio vorrà agire (con esclusione delle procedure volte al recupero dei crediti relativi ad oneri condominiali) o dovrà resistere in giudizio, si dovrà preliminarmente utilizzare la procedura di mediazione di cui al D.Lgs. 28/10 . Ci si chiede, allora, se l’amministratore del condominio possa o meno partecipare alla media conciliazione impegnando formalmente il condominio di cui ha, di norma, la rappresentanza legale.
    La risposta ci viene fornita dal nuovo art. 71 quater, delle disp. att. c.c. : «Al procedimento è legittimato a partecipare l’amministratore, previa delibera assembleare da assumere con la maggioranza di cui all’articolo 1136, secondo comma, del codice. Se i termini di comparizione davanti al mediatore non consentono di assumere la delibera di cui al terzo comma, il mediatore dispone, su istanza del condominio, idonea proroga della prima comparizione».
    Dal tenore letterale della norma appena citata appare evidente che in mancanza di apposita deliberazione assembleare l’amministratore non è legittimato a partecipare alla procedura di mediazione, la quale non potrà che concludersi con una dichiarazione negativa per assenza della parte convocata. Ne deriva, inoltre, che nell’ipotesi di specie potranno essere irrogate la sanzione processuale di cui all’art. 8, co. 5, del citato D.Lgs. 28/10, secondo cui «Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio».