Categoria: Legale


  • La Camera dei Deputati ha approvato nella serata di ieri il nuovo provvedimento sulla responsabilità civile dei magistrati.
    Si tratta di una misura politica destinata a far discutere, ma resasi necessaria dopo che nel 2011 la Corte di Giustizia europea ha condannato il nostro paese per violazione degli obblighi di adeguamento del diritto interno alle norme comunitarie.
    L’Italia ha dovuto così riformare un sistema in vigore da più di 27 anni.

    lagiustiziaèamministratanelnomedelpopolo1La nuova legge cambia in maniera decisiva la disciplina di questa fattispecie delicata.
    La magistratura sarà sottoposta ad un tipo di responsabilità civile indiretta. I cittadini potranno rivalersi sui giudici solamente per il tramite dello Stato: dovranno cioè presentare un’istanza di risarcimento danni per dopo o colpa grave del magistrato davanti al presidente del Consiglio; sarà quest’ultimo, una volta liquidato il risarcimento, a doversi rivalere sul giudice colpevole.
    Cambia anche la somma da pagare che avrà un ammontare massimo della metà dello stipendio annuo del magistrato, mentre la legge precedente poneva il tetto limite ad un terzo del compenso.

    In generale cosa altro cambia rispetto alla precedente normativa?
    L’aspetto che viene maggiormente contestato dal Csm è l’eliminazione del filtro di ammissibilità del ricorso.
    Fino alla modifica di questi giorni, il tribunale distrettuale doveva promuovere una deliberazione preliminare di ammissibilità del ricorso. Questo tipo di filtro ha portato a soli 7 ricorsi vinti dai cittadini su oltre 400 dichiarati ammessi.
    Il timore del Csm è che si possano moltiplicare le richieste di risarcimento danni, limitando così l’autonomia degli organi giurisdizionali. Sul punto il ministro della Giustizia Orlando si è dichiarato disposto al dialogo e a modificare alcune questioni problematiche.

    Le novità, però, non si fermano all’eliminazione del filtro del tribunale distrettuale. Ci sono anche sostanziali allargamenti dal campo di applicazione.
    Innanzitutto viene ridefinito il concetto di colpa grave del magistrato che riguarderà anche i casi di travisamento del fatto e delle prove.
    In generale la colpa grave interessa tutte le violazioni palesi della legge italiana ed europea, le dichiarazioni di esistenza di un fatto palesemente rinnegati dagli atti processuali o l’emissione di provvedimenti di custodia cautelare personale o reale fuori dai casi previsti dalla legge o semplicemente immotivati.
    Con la la nuova legge, dunque, il cittadino potrà chiedere il risarcimento danni anche se non è stato oggetto di provvedimenti restrittivi della propria libertà personale.
    L’ultimo cambiamento sostanziale riguarda, invece, i termini entro i quali si può presentare il ricorso, che passano da 24 a 36 mesi.

     



  • Siamo agli sgoccioli per il nuovo decreto anti-corruzione.
    Il ministro della Giustizia Orlando ha annunciato un imminente arrivo del Ddl in Parlamento, forse già la prossima settimana ci sarà la discussione in commissione giustizia al Senato.
    Nel frattempo si rincorrono le voci sui contenuti del decreto. Tra indiscrezioni e dichiarazioni ufficiali, possiamo trarre un breve bilancio delle principali novità in materia di corruzione e reati contro la Pubblica Amministrazione.

    orlandoIl tema principale è sicuramente il falso in bilancio. Questa fattispecie verrà punita in tutte le sue forme, dalla più lieve alla più grave.
    Si ragiona sulle pene in base all’entità del reato. Si andrà con ogni probabilità da 1-4 anni per le violazioni minori a 2-6 anni per quelle più gravi.
    In generale il Governo adotterà una ratio ben precisa: inasprimento delle pene per tutte le fattispecie di reato contro la P.A. e sconti delle sanzioni per chi denuncerà le pratiche corruttive.
    Una norma, quest’ultima, fortemente voluta dalle autorità giudiziarie e che prenderà come punto di riferimento quella sui pentiti di mafia.
    Chi denuncerà un accordo di carattere corruttivo, facilitando l’attività investigativa, potrà avere, infatti, uno sconto che va da un terzo a metà della pena.
    Sarà più difficile, invece, ottenere il patteggiamento. Quest’ultima è la forma più utilizzata dai corrotti per ridurre la propria sanzione.
    D’ora in poi il patteggiamento o la sospensione della pena potranno essere concordati solo se il corrotto restituisce quanto sottratto all’amministrazione.

    Ci sono importanti novità anche sui rapporti tra imprenditori e Pubblica Amministrazione. Un imprenditore, infatti, che corrompe un dipendente pubblico non potrà più partecipare alle gare d’appalto per 5 anni. La legge Severino circoscriveva, invece, il termine a 3 anni.
    Viene allargata, infine, la pletora di dipendenti pubblici che possono essere accusati di concussione. Tale fattispecie di reato non riguarderà più solamente i pubblici ufficiali, ma qualsiasi incaricato di pubblico servizio.
    Dunque tutti i soggetti che detengono un rapporto di servizio con la P.A. possono essere sanzionati con il reato di concussione, indipendentemente dalla posizione che ricoprono all’interno dell’organico.



  • Il Ddl di riforma del processo civile è pronto ad arrivare in aula.
    Ci saranno alcune novità importanti e una maggiore chiarezza nelle competenze dei vari tribunali.
    Gli aspetti più innovativi riguardano sicuramente il Tribunale delle Imprese e la nascita del Tribunale della Famiglia.
    Ma procediamo con ordine.

    14112014Vengono ampliate le competenze del Tribunale delle Imprese, il quale sarà chiamato a giudicare su quasi tutte le controversie che riguardano la realtà imprenditoriale.
    Nello specifico viene allargata la sua giurisdizione a quei reati che contemplino una violazione del diritto di concorrenza, come le class action dei consumatori, la pubblicità ingannevole o la concorrenza sleale.
    Viene esteso l’ambito di riferimento anche agli accordi di collaborazione tra società in relazione alla produzione e allo scambio di beni e servizi, le controversie legate alle società di persone ed in materia di contratti pubblici di lavori, servizi o forniture.

    La novità più importante, però, riguarda l’istituzione del Tribunale della Famiglia. Si tratta di una sezione speciale del tribunale ordinario e si occuperà di tutte le controversie legate al diritto di famiglia.
    Tra queste ci sono i giudizi sulla separazione ed il divorzio, la capacità giuridica della persone, i figli nati fuori dal matrimonio e la tutela dei minori.
    Nel complesso siamo di fronte ad un riordino delle competenze che vuole rendere più specifica l’attività dei singoli tribunali.
    L’intento della riforma del Governo è anche ottenere un’effettiva semplificazione degli atti processuali.
    Per questo motivo, ad esempio, verrà imposta una maggiore sinteticità dei suddetti atti, evitando memorie e sentenze troppo lunghe e complesse.
    Verranno stabiliti, inoltre, limiti temporali più ristretti nella fase di discussione antecedente a quelle dibattimentale. Si cercherà, in generale, di ridurre i tempi processuali e di semplificare l’intera attività giudiziale, per evitare lo stallo decisionale che troppo spesso caratterizza i tribunali italiani.



  • Le cooperative di produzione e lavoro sono cooperative il cui scopo mutualistico è costituito dall’erogazione di beni e servizi od occasioni di lavoro ai soci a condizioni più favorevoli rispetto a quanto gli stessi potrebbero ottenere singolarmente, sia in termini quantitativi che qualitativi (ad. esempio retribuzioni migliori, orari ridotti, etc).

    Cooperative EdiliL’elemento distintivo in questa tipologia di cooperative è rappresentato dalla particolare posizione assunta dal socio, in quale, di fatto, riveste sia il ruolo di imprenditore che di lavoratore. Più specificatamente la relazione tra cooperativa e socio si esplicita una duplicità di rapporti: il primo, detto rapporto societario, si concretizza nella partecipazione del socio alla vita comune societaria (conferimento di capitale, partecipazione alla formazione degli organi sociali e al rischio d’impresa, definizione della conduzione dell’impresa, etc.), il secondo, più propriamente di lavoro, in qualsiasi forma, con il quale il socio contribuisce al raggiungimento dei fini societari. L’art. 1, co. 3, della l. 143/01 stabilisce che “Il  socio  lavoratore  di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un  ulteriore  rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma  o  in  qualsiasi  altra  forma,  ivi compresi i rapporti di collaborazione  coordinata  non  occasionale,  con  cui  contribuisce comunque  al  raggiungimento  degli scopi sociali”.

    La duplicità dei rapporti, che vanno tenuti distinti, è confermata – in senso più ampio – anche dalla giurisprudenza: secondo la Cassazione “Il socio beneficiario del servizio mutualistico reso dalla società, è parte di due distinti (anche se collegati) rapporti, l’uno di carattere associativo, che discende direttamente dall’adesione al contratto sociale e dalla conseguente acquisizione della qualità di socio, l’altro che deriva dal contratto bilaterale di scambio, per effetto del quale egli si appropria del bene o del servizio resogli dall’ente” (Cass. n. 11015 del 9.05.2013).



  • Il codice di commercio del 1865 conteneva solo pochi e brevi riferimenti alle associazioni mutue, mentre il codice di commercio del 1882 dedicò alle cooperative dieci articoli (artt. 219-228), contenenti una disciplina intesa come una variante delle società commerciali avvantaggiata dalla concessione di agevolazioni fiscali: mancava del tutto una imposizione normativa circa il rispetto del principio di mutualità, con il conseguente pericolo che ad essere favorite fossero le pseudo cooperative, ovvero imprese speculative miranti unicamente a fruire delle agevolazioni fiscali e di altra natura.

    Successivamente si ebbe un fiorire di numerose leggi speciali disciplinanti la cooperazione (cooperative di credito, di lavoro, di edilizia, etc), con una sempre maggiore intromissione dello Stato nel periodo fascista, dovuta ad un atteggiamento di grande diffidenza per la cooperazione spontanea. Con l’approvazione nel 1942 dell’attuale Codice civile, le cooperative ricevettero una più ampia e dettagliata disciplina (Libro V, Titolo IV, Titolo VI, Delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici; artt. 2511- 2548). Solo poi, con l’approvazione della Costituzione Repubblicana, le cooperative ricevettero una copertura normativa sovraordinata alla legge ordinaria, nonché un esplicito riconoscimento della loro importanza all’interno del quadro costituzionale.

    costituzione-italiana1L’art. 45 Cost recita:
    1. La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata.
    2. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità.
    3. La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato.
    Tale norma impone una rilettura costituzionalmente orientata del fenomeno cooperativo, ribaltando il precedente approccio basato su di una ricostruzione del fenomeno della cooperazione (ovvero, l’identificazione del relativo istituto) operata partendo da quanto fornito dal codice civile e dalle leggi speciali. In realtà la norma costituzionale ha una mera funzione ricognitiva, e non fondativa, delle cooperative, riconoscendole come organizzazione sociale ed economica preesistente: secondo alcuni autori quella cooperativa rappresentava, nell’intento dei costituenti, un tertium genus di proprietà, da affiancare a quella privata ed a quella pubblica.
    Alla cooperazione si riconosce una funzione sociale, il cui contenuto non può che essere definito e determinato dalle finalità che la Costituzione mira a conseguire nel suo complesso, con specifico riferimento ai rapporti economici, quali lo stabilimento di equi rapporti sociali e la rimozione delle strutture monopolistiche: finalità tutte per le quali la cooperazione si pone quale strumento e mezzo funzionale. La funzione sociale, allora, non deve essere intesa come concetto meramente astratto, ma come parte di una interconnessione di diverse norme del testo costituzionale tutte finalizzate alla realizzazione del principio personalistico: non solo i limiti alla proprietà privata finalizzati ad assicurarne la funzione sociale (art. 42), o la possibilità, per fini di utilità generale, di espropriare determinate imprese a favore di enti pubblici o di comunità di lavoratori (art. 43), ma anche la proprietà privata popolare della casa di abitazione, il risparmio popolare, la proprietà diretta coltivatrice (art. 47 Cost.), la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa (art. 46 Cost.), la promozione di forme di sfruttamento del suolo economicamente più razionali e socialmente più eque (art. 44 Cost.), una diffusione più ampia della proprietà privata, la democrazia economica intesa come diffusione del potere economico, all’interno di un progetto unitario di ridistribuzione della ricchezza finalizzato a stemperare le cause del conflitto sociale.
    Il favor verso la cooperazione è un risvolto del più generale favor per il lavoro caratterizzante l’intera architettura costituzionale, a partire dagli artt. 1-4: ne deriva un quadro in cui la cooperazione risulta essere un modello egualitario, solidaristico e di gestione collettiva e democratica delle imprese, non un fatto “privato” tra cooperatori ma un vero e proprio modello differenziato (e privilegiato) di conduzione di queste ultime. Un modello prefigurato e concepito quale strumento alla costruzione di rapporti economici e sociali più equi.
    Un modello costituzionale, quindi, in cui la cooperazione è intesa in senso tecnico e “stretto” escludendo le associazioni o le semplici collaborazioni), con precisi ed identificati connotati che essa deve avere, condizioni sine qua non senza le quali non si ha tanto cooperazione non protetta ma non si ha cooperazione, ovvero carattere mutualistico (condivisione delle utilità tra i soci) e assenza di finalità antispeculative (rifiuto del mero profitto privato come scopo unico dell’impresa) superando (o sovvertendo) il precedente Stato corporativo, strutturato su di una artificiosa riduzione del conflitto sociale attraverso un profondo controllo statale.



  • Esiste per le cooperative un obbligo giuridico di distribuire dei ristorni? Secondo la Cassazione la risposta è negativa.

    Gli ermellini hanno chiarito l’inesistenza di tale obbligo, il quale non può nemmeno essere considerato quale diretta conseguenza dello scopo mutualistico inteso come gestione di servizi a favore dei soci; ed invero “Le società cooperative, pur con le caratteristiche peculiari che le distinguono, sono comunque soggetti di diritto, muniti di personalità giuridica, aventi specifiche esigenze organizzative, di efficienza e di conservazione dell’impresa, che impongono di demandare all’apprezzamento discrezionale dell’assemblea ogni valutazione circa la destinazione da attribuire a tutte le eccedenze derivanti dalla gestione mutualistica” (Cassazione sentenza n. 9513 dell’8.09.1999), ivi compresi i ristorni che, nel caso di specie portato all’attenzione dei giudici di legittimità, erano costituiti da un credito IVA. Non esiste quindi un vero e proprio diritto soggettivo al rimborso, limitato dalla discrezionalità della maggioranza assembleare: l’assemblea potrebbe, in caso di positivo risultato, deliberare di accantonare l’intero risultato economico senza attribuire ristorni ai soci, ad esempio in quelle ipotesi in cui si prevedano futuri e programmati investimenti.
    Resta inteso che anche l’assemblea, ovviamente, dovrà sopportare dei limiti e confini al proprio potere decisionale, temperato dal principio generale di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto di società, sicché i soci, azionando gli appositi strumenti di tutela, possono ottenere l’annullabilità della delibera che neghi il rimborso dei ristorni in presenza di comportamenti abusivi della detta maggioranza; si dovrà infine tenere conto di ulteriori criteri da considerarsi quali condizioni preliminari, come ad esempio il pareggio di bilancio (sarebbe inammissibile una perdita a seguito della distribuzione di ristorni) o la rimanenza nel bilancio di somme che permettano la c.d. “continuità aziendale” accantonando determinate somme a titolo di fondo rischi o riserve (senza, quindi, distribuire ogni euro presente in cassa).



  • Cosa sono i ristorni di una cooperativa? Il codice civile, che disciplina i ristorni all’art. 2545-sexies , non ne fornisce una definizione, limitandosi a disciplinare l’ipotesi di una loro ripartizione. Secondo l’art. 12 del D.P.R. n. 601/73 (Somme ammesse in deduzione dal reddito) per le società cooperative e loro consorzi sono ammesse in deduzione dal reddito le “somme ripartite tra i soci sotto forma di restituzione di una parte del prezzo dei beni e servizi acquistati o di maggiore compenso per i conferimenti effettuati”.

    ermellini3I ristorni quindi vanno tenuti distinti dagli utili in senso proprio, in quanto questi ultimi costituiscono remunerazione del capitale e sono perciò distribuiti in proporzione al capitale conferito da ciascun socio; i ristorni, invece, costituiscono uno degli strumenti tecnici per attribuire ai soci il vantaggio mutualistico (risparmio di spesa o maggiore remunerazione) derivante dai rapporti di scambio intrattenuti con la cooperativa. Secondo la Cassazione (sentenza n. 9513 dell’8.09.1999) “Essi, in sostanza, si traducono in un rimborso ai soci di parte del prezzo pagato per i beni o servizi acquistati dalla cooperativa (cooperative di consumo), ovvero in integrazione della retribuzione corrisposta dalla cooperativa per le prestazioni del socio (cooperative di produzione e di lavoro). Come parte della dottrina ha segnalato, la sola caratteristica che hanno in comune con gli utili è l’aleatorietà, in quanto la società potrà distribuire ristorni soltanto se la gestione mutualistica dell’impresa si è chiusa con un’eccedenza dei ricavi rispetto ai costi”.
    In conclusione si può sostenere che le cooperative, in caso di positivi risultati di gestione, potranno distribuire ai propri soci determinate somme di denaro sotto forma di restituzione, concretizzando in tal modo lo scopo mutualistico a beneficio dei soci stessi.



  • Lo scopo di mutualità, o scopo mutualistico, ovvero la realizzazione di un servizio al fine di garantire un vantaggio ai soci, può avere diverse gradazioni o intensità: si va dalla mutualità pura, in tutte quelle ipotesi in cui la cooperativa non persegua assolutamente alcun fine di lucro, alla mutualità spuria, in cui, a seguito di una attenuazione dello scopo mutualistico (conciliato con una attività commerciale), la cooperativa interagisce anche con terzi non soci a cui cede bene e servizi (Cassazione, sentenza n. 9513 dell’8.09.1999).

    A ciò consegue, naturalmente, una varietà di posizioni del socio cooperatore che di esse sia partecipe, fermo restando che il parametro normativo di riferimento resti sempre lo schema delle società. Se per il socio di una società di capitali lo scopo è esclusivamente quello puramente speculativo, il socio di una cooperativa a mutualità spuria mira a realizzare un risultato economico ed un proprio vantaggio patrimoniale, attraverso lo svolgimento di attività d’impresa. Secondo i giudici di Piazza Cavour nella cooperativa “Il risultato economico perseguito non è (o, almeno, non è prevalentemente) la più elevata remunerazione possibile del capitale investito. È invece quello di soddisfare un comune preesistente bisogno economico (il bisogno di lavoro, il bisogno del bene casa, il bisogno di generi di consumo, di credito e così via); e di soddisfarlo conseguendo un risparmio di spesa, per i beni o servizi acquistati o realizzati dalla propria società (cooperative di consumo), o una maggiore retribuzione per i propri beni o servizi alla stessa ceduti (cooperative di produzione e di lavoro)”.



  • Come può una cooperativa dimostrare di non essere soggetta alla disciplina sul fallimento, e quindi non essere “fallibile”?

    Va ricordato, infatti, che “Le cooperative che svolgono attività commerciale sono soggette anche al fallimento”, secondo il disposto di cui 2545 terdecies c.c., mentre l’art. 1 della Legge Fallimentare specifica che sono soggetti alle disposizioni sul fallimento gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, così come ugualmente previsto dall’art. 2221 c.c. Le uniche ipotesi in cui una impresa cooperativa può essere esonerata dall’applicazione delle disposizioni sopra richiamate si verificano quando o essa ha natura agricola o quando la natura di impresa commerciale sia esclusa da una sua caratterizzazione fermamente imperniata sulla pura mutualità. Una risposta alla nostra iniziale domanda ci è fornita da una recente decisione della Suprema Corte (Cass. n. 6835 del 24.03.2014) la quale ha puntualizzato quale sia la ripartizione dell’onere della prova: “nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, grava sull’istante l’onere di provare gli elementi integranti il fatto costitutivo, ovvero la qualità di imprenditore commerciale del soggetto da dichiararsi fallito e lo stato di insolvenza; mentre grava sul fallendo la prova degli elementi impeditivi, estintivi e modificativi, quali la sussistenza delle esclusioni legate al limite dimensionale di fallibilità”. Un onere non assolto dalla cooperativa ricorrente, la cui dichiarazione di fallimento è stata, anche per altri motivi, confermata dalla Cassazione.



  • Con una recente sentenza, la n. 6835 del 24.03.2014, la Cassazione ha chiarito quali siano i presupposti per la fallibilità di una cooperativa.

    Secondo quando disposto dall’art. 2545 terdecies c.c. “Le cooperative che svolgono attività commerciale sono soggette anche al fallimento”. Si rende quindi necessario individuare gli elementi che permettano di imputare ad una cooperativa lo svolgimento di una attività commerciale, ovvero quando l’impresa possa essere qualificata come “commerciale”: sul punto bisogna verificare la presenza, oltre che dell’autonomia gestionale, finanziaria e contabile, del perseguimento di un c.d. lucro oggettivo, ossia il rispetto del criterio di economicità della gestione, quale tendenziale proporzionalità di costi e ricavi, in quanto questi ultimi tendano a coprire i primi (almeno nel medio-lungo periodo); ne deriva una nozione di imprenditore ai sensi dell’art. 2082 c.c. intesa in senso oggettivo, rimanendo giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, il quale riguarda il movente soggettivo che induce l’imprenditore ad esercitare la sua attività. Pertanto, anche la natura commerciale dell’attività svolta da una società cooperativa deriva esclusivamente dalla circostanza obiettiva che essa eserciti (o abbia esercitato) questo tipo di attività: è pacifico in giurisprudenza che la società cooperativa può ben avere anche uno scopo di lucro (ad esempio è stata qualificata come imprenditore commerciale la cooperativa edilizia che venda a terzi gli alloggi realizzati).

    Con la sentenza sopra indicata la Suprema Corte ha affermato il seguente principio: “Lo scopo mutualistico di una società cooperativa non è inconciliabile con quello di lucro, quale obiettiva economicità della gestione, potendo i due fini coesistere ed essere rivolti al conseguimento di uno stesso risultato: pertanto, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2545 terdecies cod. civ., che prevede la possibilità del fallimento delle cooperative, per l’accertamento della sussistenza del fine predetto occorre avere riguardo alla struttura ed agli scopi di essa”.
    Nel caso concreto portato all’attenzione degli ermellini la ricorrente dichiarata fallita aveva la veste societaria di società cooperativa per azioni inquadrata nell’ambito della disciplina comunitaria volta a favorire, mediante rapporti di tipo associativo, la concentrazione dell’offerta di prodotti agricoli: di qui, le disposizioni volte a promuovere le c.d. OPA, organizzazioni di produttori in agricoltura.
    Nella specie la cooperativa non ha dimostrato né la propria natura agricola né ha dimostrato la mutualità della propria attività: la S.C., rigettando il ricorso e confermando quindi la dichiarazione di fallimento, ha infatti accertato la correttezza della ricostruzione operata dai giudici di merito, i quali avevano verificato “la sussistenza di positivi indici della natura commerciale dell’attività svolta, consistenti nella forma legale di s.p.a., nell’esistenza di una partita i.v.a., nell’oggetto sociale volto alla commercializzazione verso terzi di prodotti agricoli conferiti dai soci, dei quali la società incassa prezzo, nell’esistenza di un rapporto di lavoro con un dipendente”.



  • L’incertezza giurisprudenziale non è una causa esimente della responsabilità professionale dell’avvocato.

    justice is servedE’ questo il principio sancito dalla Cassazione con la sentenza n. 18612/13, a seguito di un giudizio nel quale il difensore convenuto aveva addotto quale giustificazione il contrasto giurisprudenziale sul termine di prescrizione dell’azione risarcitoria (due o cinque anni) nell’ipotesi di sinistro stradale, poi chiarito definitivamente dalla Cass. S.U. n. 5121/02 a favore del termine biennale. Nel caso di specie l’avvocato aveva fatto scadere il termine ritenendo fondato l’orientamento a favore del termine quinquennale.
    La Corte, ribadendo che le obbligazioni inerenti all’esercizio dell’attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, ha ribadito che nell’espletamento dell’incarico e ai fini del giudizio di responsabilità «rilevano le modalità dello svolgimento della sua attività in relazione al parametro della diligenza fissato dall’art. 1176 c.c., comma 2, che è quello della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione». In conseguenza di ciò rientra certamente nella diligenza media richiesta all’avvocato quantomeno il compimento di atti interruttivi della prescrizione del diritto.
    Qualora, invece, l’incertezza sia fondata su di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione relativa all’applicabilità del termine di prescrizione, «in caso di mancata proposizione della querela non esime il professionista dall’obbligo di diligenza richiesto dall’art. 1176 c.c.». In altri termini, il contrasto tra diversi orientamenti giurisprudenziali non solo non è una esimente della responsabilità, ma, al contrario, è il parametro che deve spingere l’avvocato a preferire la soluzione che consenta una tutela maggiore – anche prudenziale – del cliente, con la conseguenza che, in mancanza, si ritorce contro lo stesso professionista diventando misura della sua negligenza.



  • Secondo la Cassazione (sentenza n. 21203/13) è legittimo il licenziamento del dipendente che abbandona ripetutamente il posto di lavoro, poiché tale condotta va a ledere in modo irrimediabile l’elemento fiduciario che caratterizza il rapporto tra datore e dipendente: la fiducia, quindi, quale elemento puramente soggettivo, è considerata vera e propria condizione essenziale, in mancanza della quale è giustificata l’interruzione immediata del rapporto di lavoro.

    torno subitoNel caso di specie l’istruttoria aveva ampiamente dimostrato come il comportamento tenuto prestatore di lavoro fosse talmente grave da giustificare la risoluzione in tronco del rapporto. Più specificatamente il dipendente – con significativa frequenza – aveva posto in essere ripetute e prolungate assenze dal servizio durante l’orario di lavoro per fini ludici e di svago, «ricorrendo a timbrature false dell’orario di entrata, allontanandosi ingiustificatamente dal luogo di lavoro per recarsi ad un circolo sportivo a giocare a tennis o a praticare il canottaggio, per visitare concessionari d’auto ovvero allontanarsi in compagnia di estranei senza più rientrare in ufficio».
    La Corte, quindi, ha ritenuto non applicabili ai fatti contestati le varie sanzioni disciplinari previste dal CCNL di categoria (rimprovero, multa o sospensione dal servizio), confermando in pieno la legittimità del licenziamento per violazione dell’art. 2119, co. 1, c.c. (Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto), poiché il lavoratore era venuto meno ai doveri di correttezza nell’esecuzione del rapporto, non trattandosi di un episodio isolato, ma di più episodi avvenuti in più riprese ed in un breve lasso di tempo.